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VAJONT, A BELLUNO GLI ATTI DEL PROCESSO

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Si trova all’Archivio di Stato di  Belluno tutto il materiale relativo al processo del Vajont. Atti e documenti giudiziari dell’inchiesta e del dibattimento ai responsabili della tragedia del 9 ottobre 1963. Sono migliaia e migliaia di fogli che coprono 44 metri di scaffali.

 I 240 faldoni erano conservati nell’archivio del tribunale di L’Aquila, dove il processo era stato trasferito dalla sua sede naturale di Belluno per “legittima suspicione”. Il terremoto che ha colpito l’Abruzzo aveva reso impraticabile l’archivio dove le carte erano state portate all’inizio del 2008. I documenti si sono salvati grazie alla cella blindata dell’archivio.

 La maggior parte dei documenti non è mai stata riprodotta e in quei 44 metri di scaffali c’è tutta la memoria dell’evento ma anche materiale scientifico di enorme valore. Dalla medicina legale alla geologia, sono molte le discipline che, dal Vajont in poi, hanno fatto un balzo in avanti. Il compito dei bellunesi adesso è riprodurre, catalogare, digitalizzare e diffondere questo patrimonio di conoscenze. Tra qualche anno i faldoni dovranno tornare all’Aquila.

  Ad occuparsene è il personale dell’Archivio di Stato di Belluno diretto da Claudia Salmini, e la Commissione esecutiva tecnica scientifica nominata dal presidente della Fondazione Vajont, il nuovo sindaco di Longarone Roberto Padrin. A capo della commissione c’è uno dei massimi esperti del Vajont, Maurizio Reberschak, al quale spetta il compito di creare l’Archivio diffuso del Vajont, recuperando non solo questi atti, ma tutta la documentazione relativa all’evento: dal materiale dei cento avvocati coinvolti nel processo, alle foto scattate dai soccorritori.

 Il “fondo Vajont” però va anche restaurato. Alcune carte più esterne appartenenti a una ventina di faldoni, infatti, sono state intaccate da muffe e rischiano di deperire. Nel complesso tuttavia lo stato di conservazione del fondo è buono.

 Per molta parte del materiale si tratta di un ritorno a casa. Tutta l’attività istruttoria del processo Vajont infatti si svolse a Belluno e la stragrande maggioranza dei faldoni è frutto del lavoro del giudice istruttore Mario Fabbri. Solo 20 faldoni sono stati prodotti dal tribunale dell’Aquila, 8 dalla Corte d’Appello del capoluogo abruzzese.

C’E’ ANCHE LA SENTENZA DI MILANO

DI ASSOLUZIONE DI TINA MERLIN

Nel Fondo Vajont ci sono anche le prove che di doveva sapere, sapeva. Ci sono ad esempio i tabulati telefonici della sera del disastro. Quella sera ci furono decine di telefonate, tutte con in una direzione: Longarone-Venezia. Erano i tecnici di guardia sulla diga, osservavano spaventati cosa stava succedendo dentro l’invaso e chiamavano gli uffici veneziani della Sade.

 Tra i documenti ci sono anche i quaderni di Semenza padre, Carlo, l’ingegnere che progettò la diga del Vajont insieme al geologo Giorgio Dal Piaz. I suoi disegni a matita su un quadernone a quadretti, gli appunti frettolosi, quasi scarabocchiati, spuntano dagli atti processuali.

 C’è anche la citazione e la sentenza di assoluzione di Tina Merlin e Orazio Pizzigoni, giornalista e direttore dell’Unità. Accusata di diffondere “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” fu processata dal tribunale di Milano e assolta nel 1960 “perché il fatto non costituisce reato”.

 Nell’Archivio di Stato di Belluno però ci sono anche episodi più piccoli ma non meno dolorosi. Come la lettera di scuse ai giudici da parte di un folto gruppo di superstiti, costretti a raggiungere l’Abruzzo per dare le loro testimonianze. In occasione di un’udienza del processo, alcuni cittadini di Longarone ebbero una reazione di insofferenza in aula. Qualche giorno dopo se ne pentirono e scrissero al tribunale dell’Aquila per scusarsi e spiegare le ragioni delle loro intemperanze. «Il lungo viaggio fino all’Aquila, il disagio di dover affrontare un processo tanto lontano, la sofferenza per le gravissime perdite…», scrisse l’avvocato Canestrini il 22 gennaio 1969 e i cittadini longaronesi furono “perdonati”.

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TIB

Più di cinquecento cittadini bellunesi hanno firmato finora una sottoscrizione di solidarietà al Tib (Teatro Impresa Belluno) e per difenderne l’attività messa in pericolo da uno stillicidio di attacchi politici tesi a ridurre, se non a cancellare, il ruolo di questa struttura professionale – che dà lavoro a 40 persone – nel mondo culturale bellunese.

 L’attacco, mosso principalmente da ambienti di centrodestra nel nome di un presunto “pluralismo” culturale che sarebbe messo in pericolo dalla presenza del Tib, ha trovato in questi anni ampia eco nella trasparente ostilità dell’amministrazione comunale, in particolare nell’assessorato alla cultura, ma ha anche prodotto divisioni nella stessa maggioranza. In realtà il “pluralismo” culturale è sempre stato garantito. Forse per “pluralismo” si vuole intendere in realtà “pluralità” di soggetti nell’utilizzo degli spazi pubblici, ma anche se fosse così non è stato mai portato un esempio di come, quando e dove il loro utilizzo – a partire dal Teatro Comunale – sia stato inibito a qualche associazione, cooperativa o impresa culturale. Il Teatro Comunale di Belluno ospita addirittura ben due rassegne teatrali, caso quasi unico in Italia, una prima a cura della Fondazione Teatri, una seconda a cura del concorrente Circolo Cultura e Stampa, capofila dei continui attacchi al Tib.

 Il Tib è stato, a partire dal 1995, un elemento di forte innovazione a Belluno, costringendo anche associazioni e operatori a misurarsi con nuove sfide e con nuovi orizzonti. E’ probabilmente questo che ha provocato irritazione e rancori in chi avrebbe preferito restare tranquillamente a zappare la terra del proprio piccolo orto ben protetto e recintato. Il resto è venuto da una politica miope che vede perfino la cultura come un territorio da occupare e spartire.

 Per questi motivi ospitiamo volentieri questi documenti del Tib Teatro che spiegano che cos’è il Teatro Impresa Belluno e come si è arrivati al punto di mettere a repentaglio l’esistenza di un soggetto importante della cultura bellunese cancellando anni di lavoro e di risultati. (Ass.ne T.M.)

Eppure è così facile

Siamo stanchi di doverci difendere con le sole armi della verità, dell’onestà e del lavoro. Perché queste sembrano parole obsolete, dimenticate, retoriche, inutili di fronte all’arroganza del potere, di una politica sporca che sporca.

Siamo artisti, gente di teatro cui è stato tolto il proprio luogo di lavoro e a cui si sta tentando di togliere identità, trascinati nei tribunali, sbattuti in prima pagina come ladri, da chi della menzogna, dei ricorsi, delle cause, ha intessuto la propria esistenza.

Siamo stanchi di trascorrere le nostre giornate a difenderci per la sola colpa di aver lavorato tanto e bene per un sogno che a nulla serve, come l’arte, e che nella sua “inutilità”, nella sua gratuità rintraccia la sua più profonda ragion d’essere: il legame con l’esistenza. Perché l’arte rende umana la vita, che, gratuitamente, come l’arte, ci è donata, l’arte che non serve a niente, se non, semplicemente, a vivere.

Che c’entriamo noi del teatro e dell’arte, con tutto questo gioco sporco di poltrone, di prebende, di incarichi, con le parole distorte e fatte armi, con le parole svuotate di senso, usate e abusate da chi pensa di fare politica ma della polis ha totalmente smarrito il significato, se ne disinteressa, per smanie di protagonismo, un protagonismo guadagnato nel sottobosco dei corridoi di partito o tra le scrivanie di chi può a sua volta dispensare favori, piccoli poteri senza ragione alcuna se non quella di soddisfare frustrazioni e desiderio di onnipotenza e di denaro, sulla pelle delle persone.

Per questo smetteremo di difenderci con le parole giuste della verità che risuonano inutili laddove la bugia dilaga, inquina, stravolge ogni cosa, la bugia, che a forza di ripeterla, diviene verità persino per chi quella bugia, quelle bugie si è inventato.

Eppure è così facile capire, basta chiedersi perché.

Perché si fa una nomina a poche settimane dalle elezioni?

– Solo per pochi mesi – recita il copione del momento!

Perché e per chi?

Solo un mese fa si nominavano commercialisti per metterlo in liquidazione quell’Ente per il quale oggi, gli stessi commercialisti, ritrovatesi Presidenti a loro insaputa, procedono (dopo aver dichiarato di essere lì solo per spirito di servizio, per chiuderlo quell’Ente), procedono a nominare consulenti per dar vita al moribondo, che non è neanche in grado di formulare una previsione, un bilancio, per il suo futuro.

Perché un futuro non c’è più per quell’Ente, né per quella politica, e lo sanno bene coloro che nominano per accontentare le ultime volontà di chi, da un posto di potere interno a quella stessa politica, già sa, già prevede che quella parte politica è destinata a perdere. E allora arranca, tenta di accaparrare più che può, ora, perché dopo sa che sarà più difficile, trovare il link.

Perché dopo, non ci sarà più, chi quel gioco asseconda, chi reagisce con stizza quando cliccando sulla parola teatro a Belluno, appare la parola altra, quella che si vorrebbe cancellata, dopo averla infangata in ogni modo: TIB.

Ma TIB, significa Teatro, che è emozione e arte, delicatezza e umanità; Impresa che non coincide col concetto di lucro ma con quello di lavoro; Belluno che è la città della luce splendente, Belo-dunum (altura-splendente), una luce che si è tentato di spegnere offendendo il lavoro, una luce che risorgerà come la Fenice dalle ceneri; le ceneri di chi ha offeso e tentato di distruggere, pretendendo che non si alzino i toni, rivendicando un rispetto delle Istituzioni che loro, per primi, col loro operato, hanno offeso. I toni li vorrebbero lievi, per poter, nel silenzio, far dimenticare, confondere con le menzogne, celare la verità di chi dal dolore del suo lavoro offeso esprime indignazione con fermezza, e con un tono lieve afferma, invece: noi della comunità dell’arte e del teatro, noi della comunità degli uomini, che c’entriamo noi con tutto questo? 

Tib Teatro

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Anche a Belluno le donne hanno aderito all’appello lanciato a livello nazionale per la mobilitazione di oggi che si identifica con lo slogan comune “SE NON ORA QUANDO?”. Una voce, forte, chiara, indignata, una voce che all’unisono esige quello che è un diritto sacrosanto: riprendersi la dignità, il rispetto di sé. Donne consapevoli della libertà e della dignità femminile ottenute con il contributo di tante generazioni che – va ricordato nel 150esimo dell’Unità d’Italia – hanno costruito pazientemente e ostinatamente la nazione democratica.

Tutte le donne, impegnate nella politica, nei sindacati, nelle imprese, nelle associazioni, nel volontariato, donne povere e ricche, lavoratrici, casalinghe, pensionate, disoccupate, madri, figlie, nonne…, che contribuiscono ogni giorno a rendere “civile” il nostro Paese, tutte scendano in piazza per affermare il loro valore come persona, un valore che si sta calpestando in nome della sola bellezza e giovinezza di un corpo considerato “merce”.

Il modello di relazione tra donne e uomini che si sta offrendo incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionalle legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni.

Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose, lo faccia, ma se ne assuma la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale.

Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità.

Abbiamo scelto di leggere e far leggere brani in prosa e in versi, di donne e di

uomini, sulle donne, perchè siamo convinte che la nostra emancipazione, la nostra libertà, la nostra autonomia vengano da noi e attraverso di noi, prima di tutto con la nostra autoaffermazione come persone e non come oggetti sessuali. Ma se noi vogliamo sottrarci a qualsiasi forma di dominio o di scambio che offende la nostra dignità, diciamo a chi queste forme esercita di liberarsi a sua volta dall’esercizio del dominio, dalla logica dello scambio e a chi lo ha già fatto di affiancarci in questa giornata e nella vita. Ecco perchè diciamo alle donne, ma anche agli uomini: se non ora quando?

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Barbie
Scriveva Germaine Greer: «Ogni donna sa bene che, a prescindere da tutti i traguardi che possa aver conseguito, se non è bella è un fallimento. Sa anche che, per quanto bella possa essere, la bellezza, giorno dopo giorno, furtivamente l’abbandona». Nel 1996 la Mattel informava che, nel mondo, veniva venduta una Barbie ogni 2 secondi. Barbie, per chi se ne fosse scordato, è la bambola che ha sostituito nell’immaginario delle bambine il bambolotto con cui esercitavano il modello materno. È nata 52 anni fa, ha le gambe due volte più lunghe del tronco, un seno due volte più grande della circonferenza, un nasino minuscolo e lunghi capelli dritti come spaghi. Discende dalla pornobambola tedesca Lilli (in costume da bagno, destinata a un pubblico maschile, in vendita nelle tabaccherie). Nel 1959, dunque, abbiamo smesso di essere educate a diventare madri e abbiamo incominciato ad essere educate a diventare oggetti del desiderio altrui. Quando incominceremo a regalare alle bambine un kit per diventare persone? Essere belle per sé e non per trovare un posto nel mondo. Non essere belle senza che questo diventi una difformità punibile con dosi massicce di disprezzo sociale. Essere giudicate in base a ciò che dipende dall’impegno, dal talento e dalla disciplina, non essere giudicate in base all’adesione ad un modello, riduttivo e mai come oggi dominante(Barbie zoccola), oppure alla “freschezza” delle proprie carni (siamo mammiferi, non latticini). Essere giovani senza ansia e mature senza angoscia. Invecchiare come gli uomini: libere e brutte, potenti per accumulo di esperienza, orgogliose delle proprie ferite. (omissis..) Anche inseguendo questo sogno, siamo qui …oggi. Verso la pari dignità.

Tratto da articolo di Lidia Ravera

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SPIAZZATA

Da tre mesi mi prostituisco. E’ una scelta di vita responsabile, e le conseguenze ricadono addosso soltanto a me. Sono sola, non ho nessuno che mi ami, e ho deciso di vendere in qualche modo l’amore che mi sento. Riesco a dare piccoli istanti di felicità, e questo mi fa credere che anche questo mestiere abbia il suo lato buono.

 

Da tre mesi la vicina di casa mi scruta, quando parto verso le sette di sera, ed è ancora lì, alla veranda, quando torno la mattina, ai diversi orari. Sta dietro la tenda, forse convinta di non essere vista.

Penso sia fedele al marito, matrimonio saldo da trent’anni, coppia felice, si direbbe. ma allora perché mi guarda? Perché non va a fare l’amore col suo legittimo sposo? Senz’altro c’è dell’invidia. Forse per la mia assenza di punti fermi, sembro in volo; o per la mia convinzione di esistere, che lei cerca e non ha.

Stamattina ho fatto la cattiva azione: per la prima volta teneva la finestra aperta, senza tenda, e mi ha chiesto maligna: “Ma dove va, signorina, così bonora? Da dove torna? Fa forse turni di notte in fabbrica?”. Ho pensato tra me e me: se trovo una giustificazione qualsiasi la faccio star bene, mi vergogno, mi giustifico, sbaglio, e lei si sente più vicina di me alla santità. Allora ho fatto la cattiva azione. Le ho detto con aria disinvolta: “Sono una puttana. Buongiorno.” Ho alimentato la sua invidia, stava malissimo, l’ho letto nello sguardo spiazzato.

Ci avrei giurato, poverina. Stasera, uscendo alla solita ora, le tapparelle abbassate, le luci spente.

E non escludo di aver già incontrato suo marito, in incognita, s’intende.

Grazia Costa

NANNARELLA

Diceva la Magnani al truccatore che prima del ciak stava per coprirle le rughe del volto: “Lasciamele tutte, non me ne togliere nemmeno una, ci ho messo una vita a farmele”.

parole di Anna Magnani

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A TUTTE LE DONNE

Fragile, opulenta donna,

matrice del paradiso,

sei un granello di colpa

anche agli occhi di Dio

malgrado le tue sante guerre

per l’emancipazione.

Spaccarono la tua bellezza

e rimane uno scheletro d’amore

che però grida ancora vendetta

e soltanto tu riesci

ancora a piangere

poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,

poi ti volgi e non sai ancora dire

e taci meravigliata

e allora diventi grande come la terra

e innalzi il tuo canto d’amore.

Alda Merini

IL CORPO DELLE DONNE

Per anni ho creduto che la tv non mi riguardasse, non riguardasse i milioni di donne che lavorano, si impegnano, che hanno uno scopo nella vita. Ma queste immagini balzano dalla tv ed entrano nelle nostre case, alimentano le fantasie, occupano gli occhi dei nostri figli, invadono il mondo. E’ in gioco la sopravvivenza della nostra identità.

Lorella Zanardo, da “il corpo delle donne”

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HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattocchi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

Eugenio Montale

 

CANTO SULLE NOSTRE DONNE

Mia madre non è solo un ventre

Che si è scoperto

Per mio padre e per me

Quando sono nato.

Le nostre donne

Non sono solo un ventre

Che si scopre per noi

E per i nostri predatori.

Non sono solo due occhi dolci e impauriti:

il cervello e il cuore di tutta la nostra gente.

Dario Fo

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TERRA D’AMORE

Io non ho bisogno di denaro.

Ho bisogno di sentimenti,

di parole

di parole scelte sapientemente,

di fiori detti pensieri,

di rose dette presenze,

di sogni che abitino gli alberi,

di canzoni che facciano danzare le statue,

di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti…

Ho bisogno di poesia,

questa magia che brucia la pesantezza delle parole,

che risveglia le emozioni e dà nuovi colori

Alda Merini

se_non_ora_quando

http://senonoraquando13febbraio2011.wordpress.com

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FILOMENA – LA RETE DELLE DONNE

Filomena è un’associazione senza fini di lucro nata qualche mese fa per far ripartire il dibattito sulle donne in italia e dare voce alle vere donne italiane, quelle che non si riconoscono nell’immagine femminile trasmessa dalla televisione e vorrebbero poter immaginare un Paese diverso, e più femminile.

FILOMENA in un incontro in giro per l’italia,
ha realizzato un video che sta diffondendo in Rete citando alcune donne italiane, per le quali, a nostro giudizio, vale la pena restare in Italia.

questo è il link
http://www.youtube.com/watch?v=mQcAkCKp2Nw