Reportage

9 agosto 1985

Diario di viaggio tra reduci e familiari dei caduti nella ritirata del Don/4

CON LA TERRA CARICA DI MORTI

TOCCHIAMO LA FINE DELL’INCUBO

VALUJKI

È soprattutto un monumento contro la guerra quello dedicato ai caduti di questo villaggio: una grande statua di donna col viso tra le mani. Rappresenta il dolore universale delle donne. Le spose di Valujki depositano qui il loro mazzo di fiori dopo la cerimonia delle nozze. Anche le nostre donne vi depongono il loro. Da qui, tra oggi e domani, andremo a Nikolajevka e a Rovenki prima di rientrare a Charkov. In queste tre località il gruppo soffrirà la pena più profonda: i reduci perché qui sono passati cercando di aprirsi un varco che sempre si rinchiudeva dopo qualche chilometro; i parenti dei dispersi perché questi possono essere sepolti in qualsiasi luogo lungo queste piste, che percorrevano barcollanti seguendo le indicazioni dei Comandi di «andare a ovest». Anche se era forse meglio ascoltare quel che dicevano i volantini russi: «Italiani arrendetevi, sarete dispersi nella steppa».

Si va a Nikolajevka, dunque, per stradine di fango appiccicoso, su e giù per i dossi. Le ruote del pullman sussultano tra le buche. Il fango si attacca alle ruote, il pullman fa fatica a proseguire, slitta indietro, si ferma. Riprova, va avanti un altro po’, nuovamente slitta. Gli autisti sono dubbiosi di poter proseguire. Li supplichiamo di farcela, caso mai scenderemo, spingeremo il pullman se è necessario, ma a Nikolajevka dobbiamo arrivarci.

Anche qui, come al sud, dalla carreggiata si dipartono le solite stradine verso i villaggi e i kolchoz. Incontriamo solo qualche bus scassato, qualche carretta. Sono poveri i villaggi rispetto al sud, adagiati per lo più sul fondo delle collinette con accanto i cimiteri che qui non sono rossi ma di colore cilestrino. Il pullman si ferma a lasciar passare una fila di oche. I nostri ridono, raccontandosi le allegre mangiate. Incontriamo anche un funerale ortodosso, col morto scoperto sopra la bara.

Tanti della comitiva sono passati per questi luoghi. Chiedo a Trevison, che ha visto l’ultima volta mio fratello in un paese che lui chiama Carcincoca, ma che è probabilmente Charkovka, se si ricorda il nome di questi villaggi: «Io non me li ricordo neanche questi paesi – dice -. Non avevo neppure la forza di alzare gli occhi dalla pista di neve, ero io stesso un pezzo di neve ghiacciata; mi trascinavo avanti e non sapevo né dove ero, né se c’era qualcuno con me». Una volta che si era trovato solo arrivò finalmente a una isba, dove trovò altri tre italiani. Una babuska le strofinò i piedi congelati. La notte arrivarono tre partigiani: passarono accuratamente in rassegna i loro vestiti e accertatisi che erano veramente italiani dissero: «Domani mattina vi portiamo al vostro comando». I quattro alpini, dubbiosi, pensarono ormai di essere in trappola. L’indomani li fecero salire su due slitte e li condussero sul versante di una valletta. «Dall’altra parte c’è il vostro comando» e li incitarono ad andare. Trovarono veramente il loro comando tappa. «Io a casa ci sono arrivato per loro» dice Trevisson. Tutti credono che i partigiani russi avessero l’ordine di farli passare se erano isolati o in piccoli gruppi disarmati; troppe volte li avevano visti senza venire attaccati o fatti prigionieri. I russi attaccavano sempre i tedeschi e la colonna principale che ripiegava combattendo. Una colonna di disperati.

Non sono solo i russi a maledire i tedeschi, ma anche gli alpini. «Proprio su questa strada – racconta un reduce – un compagno ha tentato di attaccarsi a un camion tedesco e quelli gli tagliarono le mani». L’alpino sfinito e isolato doveva guardarsi soprattutto dagli «alleati». Sapevano che i partigiani russi facevano passare gli italiani e se potevano«ci ammazzavano per prendersi gli abiti». Si comprende allora perché, ritornati in Italia, molti di questi reduci – piemontesi, veneti, friulani – sono andati in montagna con i partigiani.

Ecco finalmente Nikolajevka. Il paese è disteso in una conca, lo sovrasta una chiesa bianca. Ma le isbe di un tempo, col tetto di paglia, non ci sono più. Tranne qualcuna, rara e molto fotografata, in nessun luogo i nostri le hanno ritrovate. Le casette sono tutte bianche di cemento, per lo più col tetto di lamiera, con gli infissi delle finestre colorati, basse come le vecchie isbe, ma non quelle. È l’unico segno di progresso in questa zona del nord, assieme a una agricoltura abbastanza meccanizzata.

La sospirata Nikolajevka. L’ultimo grande combattimento. La fine dell’incubo. Ognuno racconta la propria storia: «Qui era tutto un fuoco; «Io sono passato di qua»; «Io sono entrato nella chiesa a ripararmi»; «La ferrovia, dov’è la ferrovia?»; «C’era un tunnel, cerchiamo il tunnel». Sul terrapieno della ferrovia gli alpini sono andati all’assalto e hanno sfondato l’ultimo accerchiamento. Come matti cercano la ferrovia. Non c’è più, ora passa da un’altra parte. Vogliono trovare il segno del vecchio tracciato, si sparpagliano per il paese. Finalmente trovano il tunnel e certamente, sopra, vi passava la ferrovia. Lo confermano due uomini che abitano un’isba lì accanto e che fumano ancora sigarette arrotolate in carta da giornale. Gli alpini sono contenti. Il tunnel, per molti, è stata la salvezza: «Uscendo da qui vedevamo d’infilato la chiesa».

Si sale nella chiesa. L’interno è disadorno. L’alpino che si era riparato qui piange, ricordando. Accanto alla chiesa c’è un’isba malandata, ne escono sette donne tra i quaranta e settant’anni. Sorridono, allegre, mettendo in mostra pesanti denti d’acciaio: chi tre, chi cinque, chi l’intera dentiera. Vengono soffocate dalle domande delle nostre donne. I reduci traducono, cercano di ricuperare nella memoria il loro strampalato russo. Le babuski rispondono volentieri, fin quando arriva un uomo che duramente le zittisce. È arcigno anche con noi e ci dice di andar via, e alle donne di entrare in casa. Una resiste a lui la strattona. Divincolandosi, la donna viene da noi. Racconta, piangendo, di aver salvato, ricoverandoli nella sua isba, tre italiani. Ci aspetterà vicino alla corriera, fino alla nostra partenza, continuando a farsi il segno della croce, a dire: «Do svidanija», arrivederci. Ci sarà anche il burbero uomo che la strattonava, più mite. Dirà che poc’anzi non sapeva chi eravamo.

Si va in mezzo ai campi, sotto la pioggia e il vento di tramontana, verso il luogo della fossa comune. Chissà se è vero, o se è solo una pietosa bugia per indirizzare in un luogo precisato chi cerca un punto di riferimento per i propri morti, delle cui ossa è piena la steppa. Camminiamo per cinquecento metri, ma stentiamo ad avanzare. Sotto le scarpe ci trasciniamo almeno venti centimetri di terra viscida, grassa, che non vuol staccarsi. Le donne hanno grandi mazzi di fiori da deporre su quella fossa e vogliono recitare una preghiera per quei morti tra i quali c’è, forse, anche il loro. La fossa è in un fondo-balca dove tutti si precipitano in silenzio. Vengono deposti i fiori, dalla parte più riparata dal vento. Chissà da dove escono due piccole croci di legno portate dall’Italia, quasi giocattoli, che vengono piantate fra le zolle. Escono borse di nylon e fazzoletti che vengono riempiti di terra di Nikolajevka, scavata furiosamente con le mani in profondità per trovarla asciutta. Uno del Vestone dirà: «L’ho promessa a tutti gli alpini della mia valle». Uno del Val Piave: «Mi ha pregato di portargliela una vedova del mio paese». Maria Stella Casanova, figlia di un artigliere cadorino della Julia, vuole metterla in un’urna e portarla nel cimitero del proprio paese, dove poter andare a trovare un padre che non ha mai conosciuto.

Ad Arnautovo l’alpino Bertoli della Tridentina ha una commissione da compiere per conto dell’ufficiale Ferruccio Panazza che qui, lo scorso anno, ha ritrovato l’isba nella quale, ferito, venne accolto e curato per otto giorni da una babuska con una bambina di nome Ljuba. La «malenka» è adesso una fiorente donna bionda, sposata con figli. Bertoli ha una sua fotografia e un regalo da portarle. La corriera ci aspetta sullo stradone e noi andiamo con l’alpino, lungo i campi dai girasoli appena spuntati, verso il villaggio, trascinando ancora le scarpe incrostate di fango. A una donna che esce dall’isba mostriamo la foto e chiediamo dove sta questa Ljuba. La bionda sorride: ha riconosciuto la sua immagina. Escono la madre Manja, la zia Fienja. Si avvicina un uomo finalmente amichevole: ci sembra di aver capito che durante la guerra era lo starosta (sindaco) del paese. Ci raccontano del Pinazza, che andò via dopo otto giorni: davaj, davak (avanti, cammina) gli dicevano, prima che arrivino i russi. Ci indicano il luogo di un’altra fossa, dove seppellirono 85 dei nostri. Troppe cose da raccontare, troppo poco il tempo. Abbracciamo tutti con riconoscenza: «Do svidanija», arrivederci. Chissà quante persone come queste hanno aiutato i nostri alpini a uscire dall’inferno, o li hanno pietosamente sepolti sotto questa terra nera.

Rovenki è un bel paesotto contadino. Una grande chiesa ortodossa, bianca e celeste, con tante cupole, ora è adibita a magazzino. Attorno alla chiesa vi sono stati numerosi combattimenti dei reparti della Julia e della Tridentina, con morti e prigionieri. Qui gli alpini li conoscevano bene. Hanno attraversato il paese, arrivando da Izjum, per andare al fronte. Reparti di retrovia hanno stazionato qui, vivendo e fraternizzando con le donne e i bambini. Se li ricordano, appunto, le donne, che erano rimaste sole come lo erano gli alpini e ognuno cercava un conforto alla paura e alla solitudine. Forse, in questo gruppo di italiani, le donne di Rovenki, che subito ci attorniano, cercano qualche fisionomia di quel tempo. Ital’janski choroso, dicono e raccontano di aver fatto l’amore con gli alpini. Gli uomini sono anche qui scontrosi e non parlano con noi. Loro erano alla guerra e gli italiani li hanno conosciuti solo da nemici. E li hanno combattuti nella ritirata, quando sono passati da qui in fuga, dopo che quelli della Julia avevano tenuto per un mese, da soli, il fronte sulla Kalitva. Molti vennero qui uccisi o fatti prigionieri, all’interno della grande sacca del Don a Nikolajevka, dove gli alpini combatterono in condizioni impossibili ben undici battaglie di sbarramento frapposte dai russi. Con organici sempre più ridotti, uomini sfiniti, congelati, feriti. Con il Corpo d’Armata Alpino erano partiti dall’Italia in 57 mila; 41 mila restarono lungo le steppe della Russia.

 

(4 – fine)

26 gennaio 1980 – Veneto

«Viaggio» in una regione devastata dalle cave/4

LA FINESTRA SUL BARATRO

Il fronte degli scavi avanza anche di notte strappando terreno all’agricoltura e costringendo giorno dopo giorno i contadini a vendere – La Legge regionale legittima la rapina del territorio – Proteste, mostre e dibattiti

Il settore cave nel Veneto occupa circa duemila addetti, senza considerare quelli nelle attività indotte. Pochi, rispetto al giro di miliardi che si realizzano attorno alla attività di escavazione. Le cave in funzione sono 1500, quelle già sfruttate 2000, molte altre attendono l’autorizzazione in base all’art. 38 della legge regionale 36 del 1975. A tutt’oggi manca una legge nazionale e l’unico punto di riferimento è ancora la legge mineraria del 1927. Le Regioni hanno ricevuto le competenze in materia di cave con due decreti presidenziali nel 1974 e nel 1977.

Nel 1975 la Regione Veneto ha varato la legge 36 che prevedeva l’approvazione del piano regionale delle attività estrattive entro 6 mesi. Il piano non è mai stato fatto. Per 5 anni si è ricorso agli articoli 16 e 18 della legge 36. Il primo permetteva il rilascio di autorizzazioni in attesa del piano. Col secondo si potevano rilasciare autorizzazioni solo in casi «eccezionali» (terremoti, alluvioni, ecc.) ma è stato disinvoltamente usato per dare, a discrezione della Giunta, centinaia di autorizzazioni. Gli occupati, parallelamente al crescere delle cave, sono diminuiti del 30 per cento.

BREGANZE (Vicenza) – «Proprietà privata – Divieto di accesso e di bagnarsi, acque fredde, buche profonde, frane improvvise, sabbie mobili». Il cartello è bene in vista, messo dallo stesso cavatore, a ridosso di un orrendo sventramento di terreno, uno dei tanti che improvvisamente si aprono a ridosso dell’Astico. In questa zona, nel territorio di 4 Comuni – Breganze, Montecchio Precalcino, Sandrigo, Dueville – viene estratto il 65% di sabbia e ghiaia di tutta la provincia di Vicenza. La quantità? Dati precisi non se ne hanno; l’unico, risalente ancora al 1972 (ma dopo di allora i «buchi» si sono moltiplicati) parla di 4.265.300 tonnellate. Niente dati, niente stima di quanto dovrebbero pagare di tasse gli scavatori.

I danni, però, si sanno, si vedono, si toccano con mano, vengono raccolti dalla gente che abita nei pressi delle cave. È, prima di tutto, un enorme danno collettivo. Questa zona è piena di vigneti, di campagne coltivate, di gente che la terra la vuole ancora lavorare. Venti anni fa, all’inizio dell’industrializzazione selvaggia che ha investito particolarmente l’area vicentina, qualcuno era stato attratto dal lavoro in fabbrica e aveva venduto la terra ai cavatori. Questi, finito di scavare su quell’appezzamento, o sono avanzati sul fronte di scavo minacciando le terre attorno e costringendo i piccoli proprietari a vendere, o hanno trovato altri terreni, pagandoli fior di quattrini.

Una forma di corruzione penetrante per i contadini di una certa età, i cui figli erano andati in fabbrica per realizzare un reddito sicuro. Ma era colpa dei contadini se cedevano le terre? O non, piuttosto, di uno sviluppo del paese distorto, nel quale l’agricoltura veniva sacrificata, il territorio distrutto, la stessa vita vegetale, animale, umana sconvolta e messa in pericolo da inquinamenti dell’aria e dell’acqua?

 

Via libera agli interessi privati

L’assenza di normativa e di leggi precise, il clientelismo su cui si è sempre basato il potere democristiano in questa regione, hanno lasciato via libera al realizzarsi di grossi interessi privatistici, contro la collettività e i singoli. Da queste parti, in dieci anni, sono stati distrutti dalle cave 350 campi vicentini, circa 150 ettari di terreno coltivabile, mettendo allo scoperto 60 ettari di falda. Sono a Montecchio Precalcino vi sono 50 cave. Molti fittavoli si sono visti sottrarre la terra, perché i cavatori passavano sopra ad ogni diritto di prelazione. I prezzi di mercato sono stati, così, completamente sconvolti. Da 15 milioni al campo – tanto vale oggi un terreno «normale» – il cavatore ne paga, per un terreno che gli serve, 32. E avanza inesorabilmente con gli scavi, «mangiandosi» altri terreni fin sotto le fondamenta delle case finché, stanchi di vivere nel terrore, altri contadini cedono.

Nei pressi di una grande cava di Breganze incontriamo due donne. Le loro case non sono molto lontane dalla «buca». «Quando mi alzo la mattina – dice la signora Viero – la prima cosa che faccio non è bere il caffè, ma correre sulla cava, per vedere di quanto sono avanzati durante la notte». Perché, in tutte le zone di cava, si lavora di giorno, di notte e anche nelle feste comandate. Ci fa vedere il suo appezzamento di terra che ormai confina con il fronte della cava; una casa ormai raggiunta dagli scavi («Il proprietario l’ha dovuta vendere perché sentiva la terra franargli sotto i piedi»); una strada poderale «mangiata».

«D’estate, dal bacino stagnante della cava salgono zanzarone grandi così; ci sono stati casi di epatite virale. Vede quella casa lì? Mia sorella se l’è costruita con 30 anni di Svizzera e adesso rischia di perderla, perché se gli scavi avanzano come è possibile resistere qui?». «Pensi – dice la signora Garzotto – a noi non ci danno il permesso di costruire un garage se non stiamo a 4 metri dalla strada, ma a quelli delle cave gli danno il permesso di fare tutto». «Ci fanno morire, ecco – dice la signora Viero -. Le racconto un’altra storia. Mia madre vive con un pace-maker, uno stimolatore del cuore a pila. Non aveva mai avuto inconvenienti prima che qui aprissero la cava. A un tratto incomincia a gonfiarsi il viso, il collo. I medici ci dicono: rassegnatevi, cosa volete, è vecchia. Poi hanno smesso per un po’ di scavare, sono cessate le vibrazioni prodotte dalle ruspe e il gonfiore come era venuto se n’è andato. Che ne dite, eh?». «Parlate, parlate anche di noi sui giornali, dite che anche questo è terrorismo».

Questa è una zona all’interno del bacino idrogeologico dell’Astico, che comprende 15 Comuni della provincia, da Schio a Bassano. È il più grosso bacino artesiano del Veneto che fornisce acqua potabile, attraverso l’acquedotto Berico-Euganeo, a un milione di abitanti tra Padova e Vicenza. La zona è tutta «bucata», le falde acquifere scoperte, il pericolo di inquinamento e di epidemie reale. In una di queste cave scoperte, dal fondale di sabbie mobili, un giorno è stato «risucchiato» un autotreno con dentro il guidatore. Ma chi, a livello istituzionale, se ne preoccupa? La Regione prima asseconda tutte le richieste di escavazione, poi fa una legge che non solo allarga la possibilità di fare altri «buchi», ma sottrae ogni potere decisionale ai Comuni «per sollevarvi da ogni fastidio» ha dichiarato l’assessore regionale Fabbris in una riunione pubblica tenutasi recentemente a Sandrigo. In realtà per proteggere meglio i cavatori.

Eppure vi sono gruppi, associazioni, partiti di sinistra che si oppongono con tutte le loro forze alla «legalizzazione» della rapina del territorio, sancita dall’ultima legge regionale. Dal Trevigiano, al Padovano, al Vicentino sono nati coordinamenti, collettivi, associazioni che da anni tentano di sensibilizzare l’opinione pubblica sul disastro ecologico e urbanistico rappresentato dalle 3500 cave del Veneto. Sono state fatte mostre, dibattiti nei quali magistrati, partiti, Italia Nostra, VVF, associazioni contadine, per non parlare di singoli, hanno documentato e dimostrato i gravi pericoli che sovrastano le popolazioni.

 

Raccolta di firme contro lo scempio

Qui, a Breganze, c’è un «Gruppo per la salvaguardia del territorio» molto attivo. Hanno montato un video-tape di grande interesse. Fa la storia del territorio locale, i primi insediamenti, come si è man mano sviluppata l’agricoltura, la distruzione di un ordinato lavoro umano subentrato con la coltivazione delle cave. Andranno nelle scuole, nelle piazze, nelle biblioteche, raccoglieranno firme per tentare di fermare in extremis la continuazione dello scempio.

La provincia di Vicenza è particolarmente colpita. Le sue viscere sono ovunque rivoltate dalle escavazioni indiscriminate. Abbiamo detto del bacino dell’Astico, ma altrettanto vale per quello del Brenta, che si allunga da Bassano fino a Cittadella. Si scava sul letto del fiume (e abbiamo descritto, nell’ultimo articolo, le rovine provocate in provincia di Padova) e si scava extra fiume, in zone bonificate dai contadini in tanti anni di duro lavoro. E, poi, si lasciano le buche scoperte, il terreno dissestato. L’ARCI di Tezze ha chiesto al Magistrato delle acque il permesso di risistemare, ad uso parco, un tratto vicino al Brenta. Gli è stato risposto «che non è compatibile con la buona conservazione delle opere di difesa idraulica».

Ai contadini che protestano il sindaco di Tezze, Battistella, risponde che «con le barbabietole non si costruiscono case». Con la scusa della «ragione superiore» si tenta di mettere a tacere la protesta della gente che, anche qui ha fatto numerosi atti. Ha inviato lettere a tutti, ha raccolto firme. Due anni fa arriva una lettera della Coldiretti: abbiamo interessato gli assessori regionali Borgo e Molinari, si incontreranno con una vostra delegazione. Non è mai avvenuto.

In compenso, il sindaco denuncia la gente ad ogni pié sospinto: chi osa protestare contro di lui; chi pianta un sasso-monumento a ricordo dei caduti senza la sua autorizzazione. E chi scava, sopra e sotto falda, in mezzo ai campi o a ridosso dei ponti ha mano libera, come ha mano libera lui (18 consiglieri dc in Comune e 2 socialdemocratici) in certi intrallazzi di compra-vendita di territorio comunale, venduti e ricomprati diverse volte a scapito delle finanze pubbliche. Ma questa è un’altra storia.

di Tina Merlin