Resistenza e Antifascismo

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Ponte San Felice (BL) 1960

da: L’Unità –Pagina della donna

1953
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FIORI ROSSI

 Lungo il ponte s’avanza un corteo: Bandiere, corone, donne curve e vestite di nero e gente, molta gente. Il ponte, lungo duecento metri, diventa una cosa viva sotto il sole d’estate. Il corteo continua ad avanzare: Si ferma dopo l’ultima arcata, vicino a una grande bianca lapide. Sulla lapide sono scritti in nero i nomi di undici giovani patrioti, morti massacrati dagli invasori nazisti. La cerimonia ha inizio con un canto che si leva incontro alle rondini, nel cielo. Il canto racconta, con passione e con forza, l’eroica morte dei partigiani. Dice di quel doloroso giorno: sul ponte sventolava la bandiera nera, simbolo dei partigiani che sono morti facendo la guerra. Racconta che sono morti in undici, tutti belli e forti; che sono partiti e non sono più tornati, ma sono invece rimasti su quel ponte: Che erano amati da tutti e che, massacrati furono poi gettati nelle acque del Piave che scorrono fra i monti di Belluno.

Il canto da rivivere ai presenti, molti dei quali lo hanno vissuto, il combattimento di quella lontana notte. Il secco crepitare delle mitragliatrici fece svegliare di soprassalto gli abitanti dei paesi vicini e strozzò loro il fiato in gola, i boati delle bombe a mano ruppero il buio della notte e fecero, dallo spavento, urlare i bimbi nel loro innocente sonno. Da una parte, dall’altra, gli isolati colpi dei moschetti “ribelli”, insufficienti, neanche uno per unità.

Fece rivivere, il canto, gli spasimanti attimi di quegli undici eroi, in attesa della morte, sopra il ponte bagnato di sangue. E ancora , quella tremenda alba di dolore e sacrificio, sopra il ponte insanguinato, con i partigiani stesi, la faccia nella polvere, come avessero voluto abbracciare un’ultima volta la terra, generatrice di vita, oppure il viso rivolto all’aurora che ogni giorno viene a portare il domani. E poi il sacrilego gesto dei carnefici, nel tentativo di disperdere le tracce del misfatto, gettando le povere spoglie nelle acque sottostanti.

Termina il canto, con una lode d’amore ai fratelli caduti mentre le mamme vestite di nero, ogni anno muoiono assieme ai loro figli e rivivono poi nuovamente con i combattenti della Resistenza guardando, come l’ultima volta i loro figli fecero, l’aurora che porta il nuovo domani.

La canzone termina. Le corone dall’alloro rendono omaggio ai caduti per la Patria.

Due partigiani si staccano dal gruppo portando una piccola corona d’alloro: Ripercorrono il ponte. Sul posto del combattimento si piegano oltre il parapetto e, con lieve gesto, lasciano cadere la coroncina nell’acqua che lenta, sotto., scorre. La canzone del Piave accompagna giù, lungo il corso dell’acqua, il commovente omaggio a coloro che dalle stesse acque furono cullati nel loro ultimo sonno.

La cerimonia è terminata. Ma ecco, lungo il ponte, un altro gruppo si avanza. La gente fa largo per lasciar passare. Dal gruppo si stacca un giovane con un grande mazzo di fiori rossi. Con mano tremante li depone ai piedi della lapide. “I partigiani di Trento” c’è scritto sul nastro. Gli occhi arrossati dei presenti risplendono a quella vista, a quel caro segno di fratellanza e solidarietà nel quale il popolo si sente unito e forte, in nome dei suoi morti e per tutti i vivi che verranno.

Le care, amorevoli mamme vestite di nero, curve sotto il peso del dolore e degli anni si asciugano gli occhi con la manica del grembiule, e nel semplice omaggio di quei fiori rossi sentono il grande affetto di innumerevoli altri figli.

Tina Merlin        

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Tratto da:

Le Donne nella Resistenza Bellunese

25 Aprile 1992

 

ASPETTI ED EPISODI DEL CONTRIBUTO

DELLE DONNE ALLA RESISTENZA BELLUNESE

Di Tina Merlin

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L’occupazione della provincia da parte delle truppe tedesche rese più difficile l’opera di solidarietà femminile, ma non per questo essa venne meno, anzi si intensificò, entrando nella clandestinità, arrivando perfino a far fuggire dai treni in transito per la Germania i soldati italiani fatti prigionieri e forse destinati al macello.

In quel confuso e drammatico settembre 1943 le donne assolsero un importante compito sotto l’impulso dei sentimenti più umani quale l’amore , la pietà, l’odio contro la guerra, il ricordo dei propri congiunti morti, un manifestarsi ininterrotto di iniziative e di aiuti di vario genere fu dato, dalla maggioranza, sempre con la sincerità di questi sentimenti.

(…)

Erano ancora casi singoli, ma era pur sempre un inizio. La coscienza femminile collettiva si destò tutta intera nel momento del tracollo del regime e, in seguito, dello Stato. L’8 settembre 1943 tutte le donne bellunesi erano preparate a dare il meglio di sé stesse -e lo hanno dato- per salvare la vita di chi, disorientato dagli eventi, cercava un vestito borghese, un piatto di minestra, un rifugio.

(…)

La partecipazione femminile alla Resistenza si estrinseca in due filoni: la partecipazione di massa

svolta come solidarietà al movimento e quella individuale svolta partecipando in forma organizzata nei battaglioni, nelle brigate, nei gruppi territoriali. Tutte due le forme assumevano la medesima importanza.

Tutte due le forme sono state determinanti per la vittoria. Nel primo caso la solidarietà era data al momento del bisogno; nel secondo caso era una partecipazione sempre attiva, svolta consecutivamente per lunghi periodi o che è durata tutta la guerra. In entrambi i casi essere catturate significava subire le medesime conseguenze.

Perchè le donne hanno assunto un ruolo tanto importante nella Resistenza? Gli ideali socialisti, che dopo la prima guerra mondiale fino al fascismo, avevano aperto orizzonti nuovi creando anche nella maggioranza delle donne bellunesi, per gran parte di origine contadina, un’istintiva coscienza di classe; i principi cristiani che, sul piano sociale, collimavano con l’aspirazione delle masse, i richiami alla pace, al lavoro, alla giustizia, ad una maggiore dignità nello Stato, questi furono senz’altro gli elementi fondamentali che servivano da molla potente a ribellarsi al sopruso, a partecipare alla lotta e al dolore di milioni di persone. Ma proprio per questo senso socialista e cristiano della giustizia esse sentivano che un

mondo doveva cambiare, che al privilegio doveva subentrare l’uguaglianza, al sopruso il diritto collettivo, al potere di pochi la volontà della maggioranza.

(…)

Soltanto poche avevano capito che ciò doveva contare anche per il “dopo”, per l’acquisizione di quei diritti da cui erano sempre rimaste escluse, poiché la società nuova non avrebbe significato ancora nulla se non avesse accolto nel suo seno, a pari diritti perché pari erano stati i doveri, uomini e donne.

(…)

Trascorso il periodo più critico nel quale tutte le forze del Gruppo di Difesa della Donna erano concentrate nell’assistenza, si potè pensare a svolgere un vero e proprio lavoro politico. Si organizzarono le donne portandole in piazza contro il mercato nero e il carovita. In una memorabile manifestazione tremila donne scesero in piazza del Duomo per imporre al prefetto il controllo dei prezzi. L’epopea della resistenza sorretta dall’insostituibile aiuto femminile, era terminata. Si apriva per le donne, sotto la spinta degli ideali resistenziali, un’altra epoca storica, di lotte e di conquiste.

(…)

Si potrebbero citare centinaia di altri fatti nei quali le donne furono protagoniste durante la Resistenza. Ma questa piccola sintesi può bastare a significare molte cose. Prima di tutto l’unità che le univa, indipendentemente dalla provenienza sociale, dalla fede politica e religiosa. Indubbiamente ogni donna è stata mossa prima di tutto dal proprio istinto umanitario ad essere solidale con il movimento partigiano. Perché aveva il fratello combattente, o il padre, o un compagno di scuola, o un amico. Perché il proprio animo si ribellava di fronte ai massacri della guerra, agli orrori delle impiccagioni e delle rappresaglie. In seguito, però, subentrò un’altra componente: i partigiani sentivano finalmente che, senza il contributo delle donna, il sistema contro il quale combattevano, non sarebbe crollato.

Nasceva così un tipo di donna nuova per la società del domani. In questo domani credeva la contadina e l’insegnante, la casalinga e la studentessa, un domani ancora non chiaramente definito ma sicuramente diverso, dove la giustizia avesse senso in tutte le cose e la democrazia, questa parola nuova che avevano appena imparato a pronunciare, le portasse finalmente ad uscire dal chiuso delle faccende domestiche per renderle libere di parlare, di pensare, di credere, di agire, di dare il loro contributo alla società come tutti gli altri cittadini.

(…)

Le donne della Resistenza, con la loro unità, hanno aperto le via all’emancipazione femminile, ma sta soprattutto alle donne di oggi raccogliere la loro eredità e portarla avanti, con unità d’intenti, per far avanzare nel suo insieme la società di cui esse sono una parte preponderante, sulla strada del progresso civile ed umano.

(1965)

Scritto nel 1965 e pubblicato per il 25/04/1992 dopo la sua scomparsa da:

Comune di Belluno  – Istituto Storico Bellunese della Resistenza dell’Età Contemporanea

 

25 aprile 1965 – Tre Venezie

Trichiana (Belluno)ANCHE PRETI E CARABINIERI

PASSARONO CON I PARTIGIANI

Trentun caduti – Oggi la celebrazione della insurrezione

Dal Corrispondente

TRICHIANA (Belluno), 24 aprile

Sono trascorsi venti anni da allora, ma in questo paese, come allora, lo spirito della Resistenza è profondamente radicato. Qui la Resistenza è patrimonio di tutti, perché tutti – all’infuori di una o due persone – vi hanno contribuito, combattendo sui monti, aiutando materialmente i partigiani, sostenendoli moralmente senza mai cedere alle minacce, ai rastrellamenti alle perquisizioni, alle uccisioni.

Uomini e donne, contadini e commercianti, studenti e clero, e perfino i carabinieri passati armi e bagagli l’8 settembre dalla parte dei partigiani, hanno formato qui un piccolo esercito, unito nella lotta per il raggiungimento di ideali comuni. Avevano idee diverse: c’erano i comunisti e c’erano i cattolici, ma ciò non fu di nessun ostacolo nell’unità operativa.

La storia di Trichiana, nel periodo della lotta partigiana, è storia di sacrifici, di eroismi, di sangue, di solidarietà fraterna. I giovani di questo paese furono tra i primi della provincia ad organizzarsi, prima su basi territoriali e poi di montagna. Subito dopo l&8 settembre, quelli che si trovavano a casa o che vi giunsero dalle vicine caserme, iniziarono l’opera di reclutamento, soprattutto fra i giovani soggetti al servizio militare di lega; organizzarono depositi di armi e di viveri. Allorquando gli uomini si portarono in montagna, verso l’estate del 1944, vi andarono organizzati come un vero reparto militare. Essi, da soli, formarono un battaglione, il «Luciano Manara», che via via si ingrandì e divenne famoso per le numerose azioni di guerra compiute e per i combattimenti sostenuti.

Il paese tutto partecipava con ansia alle vicissitudini dei garibaldini e li sosteneva in ogni modo: le ragazze confezionavano abiti per i «ribelli»; dentro l’asilo, nella scuola di lavoro diretta da suor Fosca si ricamavano fazzoletti rossi e la bella bandiera del battaglione, ora caro cimelio di quei tempi.

Intanto molti soldati sotto le armi, quelli che non avevano potuto arrivare a casa dopo l’8 settembre, venivano avviati, nei carri bestiame, verso i famigerati «lager» tedeschi, dove emissari fascisti andarono a prospettar loro la libertà a patto che vestissero la divisa dei repubblichini di Salò. Nessuno di essi cedette alla lusinga, tutti gli internati di Trichiana preferirono la prigionia e fu, questo loro atto, una scelta chiara e precisa nel contesto del momento politico italiano, fu una dichiarazione di Resistenza al fascismo, fu una Resistenza compiuta molte volte in situazioni più difficili delle nostre. Noi potevamo difenderci, loro no.

Trichiana venne sottoposta a numerosi rastrellamenti. Il primo ebbe luogo il mattino del 15 luglio 1944, subito dopo l’imboscata del Ponte S. Felice. Chi non ricorda i fascisti vestiti da tedeschi e i tedeschi stessi, accerchiare il paese ed entrare direttamente in alcune case, nome e cognome alla mano dei figli partigiani? Probabilmente li avevano già da tempo quei nominativi precisi, forniti forse da quelle due persone che non si erano rassegnate ad entrare nell’oblio dopo aver goduto dei fulgori fascisti. Ma fin da quella prima incursione nazifascista il nemico ebbe piena convinzione di trovare un popolo compatto malgrado la paura, un popolo che sosteneva inequivocabilmente il movimento dei «ribelli», un popolo che non avrebbe ceduto. E così fu. Vennero i giorni tristi delle impiccagioni, degli arresti, delle torture, degli incendi dei casolari. Ma nessuno si piegò. Nemmeno la famiglia Schiocchet, che vide appendere al palo, nello stesso giorno i quattro uomini della casa; non Tea Palman barbaramente torturata e percossa; non le vecchie madri che avevano i figli braccati o uccisi.

Quanto deve la Resistenza alle madri, alle mogli, alle sorelle dei combattenti! Al loro aiuto morale, al loro non far domande, al loro eseguire i più svariati incarichi in silenzio, al loro tacere di fronte alle minacce nazifasciste; alla ospitalità offerta nottetempo a un fuggiasco, al paio di calze di lana confezionato per il resistente.

Trichiana divenne una spina nel fianco degli occupanti tedeschi. Ne ebbero paura e perciò intensificarono le rappresaglie, i rastrellamenti. Aumentarono anche i lutti della popolazione. Ben 31 caduti annovera il Comune: alcuni di essi erano di altri luoghi e paesi d’Italia, che qui si comportarono eroicamente come il Toscanino, come il ragazzo bestialmente bastonato sulla piazza e poi impiccato al poggiolo di una casa, sulla strada per S. Antonio.

Oggi la popolazione di Trichiana celebra unita come allora la data che la vide protagonista di eventi importanti, che formarono il periodo più valido della nostra storia recente. Venti anni fa la guerra non era ancora finita in questa provincia. Venti anni fa, in questi giorni, incominciava l’insurrezione con gli attacchi ai vari presidi tedeschi sparsi nella zona. I partigiani erano scesi dai monti per l’ultima, grande offensiva. Nel corso di quei combattimenti cadeva alla testa del battaglione «Manara», il comandante Bill. Egli usava spesso dire a chi lo invitava a non esporsi troppo al pericolo: «Voglio, domani, poter andare a testa alta di fronte al mio paese e a me stesso, per aver fato tutto il mio dovere».

Tina Merlin

 

13/01/1974

QUATTRO FRATELLI CONTADINI

SALIRONO INSIEME IL PATIBOLO

L’eroica famiglia Schiocchet – Erano di Trichiana in provincia di Belluno e alla loro memoria sono state concesse quattro medaglie d’argento al valor militare – Contadini, operai e studenti guidarono alla lotta l’intero paese compresi i parroci e i carabinieri – Nella zona si trovavano in quel momento anche tre missioni alleate, una delle quali era stata accerchiata durante un rastrellamento

Questa la motivazione con la quale la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato nei giorni scorsi la concessione di quattro medaglie d’argento al valor militare alla memoria dei fratelli Giovanni, Gervasio, Antonio e Giuseppe Schiocchet, rispettivamente di 43, 41, 39 e 27 anni, impiccati dai nazifascisti il 10 marzo 1945 sulla piazza del loro paese.

È una pagina poco nota della guerra partigiana che ripropone alla riflessione storica la natura della Resistenza italiana particolarmente di quella aspramente combattuta in queste zone di montagna.

Ed è importante, perciò, vedere il contesto in cui il tragico fatto avviene. Trichiana è un comune a 12 chilometri da Belluno, alle pendici delle Prealpi. All’epoca della guerra partigiana è un paese di contadini e di emigranti. Gli uomini, dai vent’anni in su, sono quasi tutti alpini ed hanno combattuto e sono morti numerosi su tutti i fronti della seconda guerra mondiale. Nel 1921 il comune era rosso, anche se esisteva un forte movimento cattolico che si identificava col Partito popolare. C’erano una cooperativa di consumo e una latteria sociale fiorenti.

All’8 settembre antiche e nuove convinzioni si erano incontrate e maturate. Quando la provincia venne incorporata al «grande Reich» la ribellione a Trichiana divenne totale. Bastarono pochi organizzatori, con un nuovo linguaggio, perché tutta la popolazione capisse da che parte bisognava stare. Intanto contro il fascismo e il nazismo portatori dell’ideologia delle guerre di aggressione, dei paesi incendiati, degli stupri, dei bambini massacrati, della fame (non si conoscevano ancora le atroci realtà dei forni crematori della Germania), ma anche per qualcosa di diverso. Questo qualcosa di diverso era una certezza e fu la molla principale della risposta «ribelle» della popolazione. Cosa dovesse rappresentare nella realtà concreta si doveva dimostrare. Erano ancora nuove per i giovani le parole libertà e giustizia, ma avevano un grande fascino e bisognava riempirle di contenuti.

In ogni frazione del comune vengono organizzate riunioni della popolazione per discutere cosa fare. I reduci dai fronti hanno conosciuto la guerriglia, i pochi giovanissimi studenti del luogo imparano i primi elementi di politica. Si scopre – attraverso le prime riunioni del Partito comunista – che il mondo non è tutto uguale, ci sono altre ideologia, che la libertà e la giustizia hanno significati precisi. Contadini, operai, studenti si mettono presto d’accordo. Insieme trovano i luoghi dove riunirsi, dove formare le «basi» dei coordinamenti, degli incontri anche con i giovani dei paesi vicini. Due di queste «basi» saranno le canoniche di Trichiana e di S. Antonio Tornal. L’entusiasmo e l’unità del paese hanno travolto anche i parroci. Quando i tedeschi emettono il bando per la chiamata alle armi della classe 1925 il parroco di Trichiana don Alfonso Tomiet esorterà dal pulpito i giovani a non presentarsi, a salire in montagna, e la popolazione ad aiutarli con ogni mezzo. Nessuno si presenterà alla chiamata nazista: tutti i 28 giovani di leva andarono sui monti.

 

Movimento

Il movimento si estende rapidamente. Nel maggio del 1944 il paese ha ormai un battaglione, il «Luciano Manara» con 60 uomini organizzati sulle montagne del paese, che saliranno a 120 alla fine del 1944. Il battaglione è aggregato alla brigata «Tollot» della divisione garibaldina «Nino Nannetti» che opera tra Belluno e Feltre, sulla sinistra del Piave e su entrambi i versanti bellunese e trevigiano. Successivamente il battaglione verrà incorporato nella brigata autonoma «7° Alpini» costituitasi in zona nell’ottobre del 1944. Ma dietro alla forza militare del battaglione sta tutta la popolazione del paese. Vengono costituiti comitati unitari di librazione a Trichiana e a S. Antonio Tortal. I contadini forniscono viveri, in molte case si nascondono armi, dalle suore le ragazze ricamano bandiere e fazzoletti rossi, le donne confezionano vestiti per i partigiani. In tutto il comune esiste una rete di recapiti e di staffette, le case sono sempre aperte per il «ribelle» che arriva di notte stanco e affamato, l’intero nucleo dei carabinieri della locale caserma passa armi e bagagli con i partigiani.

Sul territorio del comune, individuato come centro organizzatore della guerriglia partigiana si abbattono i primi rastrellamenti. I partigiani contrattaccano spesso in grandi battaglie su terreno aperto, sganciandosi con molta perizia e lasciando sempre morti e feriti nemici sul terreno. Le rappresaglie non si fanno attendere: i tedeschi incendiano case e cascine, prendono i civili per ostaggi, torturano, impiccano. La popolazione intensifica l’appoggio al movimento partigiano, nessuno deflette. Neanche di fronte al proprio figlio o fratello torturato o impiccato. Come i congiunti dei fratelli Schiocchet che sapevano molto di tutto e non dissero nulla nemmeno dopo l’impiccagione dei quattro uomini della famiglia.

La casa dei fratelli Schiocchet era a mezza strada tra Trichiana e S. Antonio Tortal, in località Piangrande-Costalunga. I fratelli, tutti contadini, furono tra i primi organizzatori del movimento partigiano a S. Antonio Tortal. Venne loro affidato il compito di restare a casa e di coordinare le attività nella zona. Divennero guide, informatori, uomini di collegamento, fornitori di viveri per le formazioni di montagna e per le missioni alleate di stanza o in transito nella zona.

I primi di marzo del 1945 i rastrellamenti tedeschi si susseguono con impressionante accanimento e ferocia. In zona si trovano in quel momento anche tre missioni alleate: due americane guidate rispettivamente dal maggiore Benucci e dal capitano Chappel e una inglese guidata dal maggiore Tilman. È proprio in seguito all’accendersi di un furioso combattimento attorno alla «casera» della missione Chappel, circondata dai tedeschi che vengono presi prigionieri in quattro fratelli Schiocchet. La missione fu salva per il sangue freddo e la determinazione del giovane partigiano Aldo Palman (Nuvolari) che attrasse i tedeschi in altra direzione aprendo un infernale fuoco e pagando con la vita il suo generoso gesto.

I tedeschi subiscono in quell’occasione numerose perdite e prendono prigionieri alcuni partigiani e civili del luogo. Fra questi i quattro Schiocchet che portano in carcere a Belluno, mentre sei partigiani vengono subito impiccati sulla piazza di S. Antonio. La notte della cattura dei quattro fratelli un americano infangato e tremante di freddo si presenta in casa Schiocchet e chiede ospitalità. La famiglia composta dalla vecchia madre, dalla moglie di Gervasio e i suoi quattro figli piccoli, dalle due sorelle e da una zia non esita un istante. L’americano viene rifocillato e accompagnato a dormire in una casa vicina. Eppure il momento, oltre che doloroso, è pericolosissimo per gli Schiocchet, imputati di aver dato asilo alle missioni alleate.

Il 9 marzo i tedeschi ritornano, mettono al muro la madre puntandole un mitra al petto e le chiedono le armi dei figli. Interrogano la sorella Maria: vogliono i nomi dei partigiani, delle missioni alleate; vogliono conferma che essi venivano ospitati nella casa. Le donne non parlano. Anche la sorella viene prelevata e portata in carcere.

Il 10 marzo i quattro fratelli vengono riportati a Sant’Antonio e impiccati assieme ad altri sei compagni ai pali di sostegno del gioco delle bocce. A Trichiana li vedono passare in cima al camion scoperto; a S. Antonio la popolazione assiste impietrita alla esecuzione. Dopo l’impiccagione i nazisti fanno razzia di quanto trovano in casa Schiocchet: bestiame, viveri, indumenti. La famiglia vivrà della solidarietà della popolazione. La sorella Maria, ignara della sorte dei fratelli, continua ad essere interrogata in prigione. Tre giorni dopo la morte dei congiunti i tedeschi le promettono cinicamente la libertà assieme ai fratelli se conferma il luogo dei lanci e il nascondiglio delle missioni alleate. Rimarrà in prigione fino alla Liberazione e verrà restituita alla famiglia fisicamente menomata. La madre morirà di crepacuore un anno dopo.

 

Un simbolo

La storia dei fratelli Schiocchet, che quest’anno verrà celebrata il 10 marzo con grande solennità, si identifica con quella del loro paese. Essi sono il simbolo di una lotta popolare combattuta con la certezza del riscatto. Per questo un piccolo paese ha unito le sue forze, ha schierato in campo un battaglione di armati protetti e aiutati da tutta la popolazione, ha pianto i suoi 31 caduti e trucidati tra cui il comandante del «Manara», e di essi conserva memoria perché legata alla storia di ognuno, alla prima tappa di un impegno collettivo civile e politico che ha fornito i presupposti per la Costituzione repubblicana.

Un impegno che deve andare ancora più avanti nell’unità di quelle componenti sociali – contadini, operai, studenti – che seppero, con un concreto esempio militante, costituire un saldo blocco di alleanze per la conquista di obiettivi validi per tutta la comunità.

Tina Merlin

«Di numerosa patriarcale famiglia contadina, partecipava con i suoi congiunti conviventi alla guerra partigiana, ospitando con grande rischio e coraggio missioni militari alleate e facendo della sua casa luogo di smistamento e di appoggio degli agenti informatori e di collegamenti delle formazioni della zona. Arrestato con tre suoi fratelli, subiva coraggiosamente con essi il capestro, sulla piazza del suo paese, alla presenza dei familiari e della popolazione, nobile esempio di valoroso sacrificio nell’amore di Patria e delle virtù delle stirpi montanare della Valle del Piave. Sant’Antonio Tormal di Trichiana (Belluno), 10 marzo 1945».