Dopo la tragedia del Vajont

57°
anniversario
Vajont 1963 – 2020

“Paura...c'è sempre un Vajont 1984” di Giampaolo Corona

“Paura…c’è sempre un Vajont 1984” di Giampaolo Corona

 

È interessante leggere verso la fine della 3° colonna il commento
di una studentessa di Mestre.

 

Quel “muro” da sfondare

La strada l’ha indicata Marco Paolini, da quel palco
sulla diga del Vajont bisogna ”ricordare”, non solo la tragedia
del 9 ottobre 1963 , ma tutto quello che ne è seguito, i
coraggiosi tentativi di sfondare il muro innalzato dal potere
politico,industriale, scientifico. Ecco la testimonianza
di chi quel muro ha contribuito a distruggerlo: Floriano Calvino,
geologo, fratello del più celebre Italo, fu l’unico perito italiano ad
accettare la consulenza per il giudice istruttore Mario Fabbri.

di Floriano Calvino*

9 ottobre 1963, una porzione della sponda sinistra del serbatoio idroelettrico del Vajont, costituita da circa 300 milioni di metri cubi di roccia, scivola nel lago quasi pieno sospingendo dinnanzi a sé, contro la sponda opposta, un’ondata alta 200 metri. Ricadendo ai due lati della frana, l’acqua investì verso la coda del bacino gli abitati di Erto e S.Martino e, dalla parte di valle, scavalcò la diga per rovesciarsi, attraverso la breve e angusta gola del torrente Vajont e con un salto di 400 metri di altezza sul fondovalle del Piave e cancellare buona parte dei paesi circostanti: Longarone, Rivalta, Pirago, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo. Duemila furono le vittime. Nel procedimento giudiziario che seguì la catastrofe e cui lo scrivente partecipò in veste di perito d’ufficio, fu animatamente discussa la prevedibilità dell’evento. Non riconosciuta nella sentenza di primo grado, essa venne invece ammessa nel giudizio d’appello e confermata dalla Suprema Corte. La stampa scientifica ha generalmente ospitato ricostruzioni e commenti parziali, miranti a sottolineare il carattere di eccezionalità del fenomeno e ad escluderne la prevedibilità. Sono stati così taciuti elementi di giudizio fondamentali, come quelli concernenti la frana caduta nel vicino serbatoio di Pontesei. (…) Nella realtà storica dei fatti, gli elementi tecnici utili per emettere una prognosi infausta sull’evoluzione del movimento franoso non erano affatto mancati negli anni dal’59 al’63, cioè nel non lungo periodo antecedente alla catastrofe in cui venne finalmente presa in considerazione la stabilità della sponda sinistra. (…) Il giudizio di prevedibilità della frana del Vajont e delle sue catastrofiche conseguenze si fonda sui seguenti elementi di fatto: 1) le dimensioni e l’unitarietà della massa franata erano perfettamente note. 2) La velocità di caduta della frana rientrava nell’ambito delle possibilità naturalistiche. 3) La risalita della massa franata sulla sponda opposta ed il comportamento dell’onda sollevata erano logica conseguenza delle condizioni morfologiche e idrodinamiche in cui il fenomeno si svolse, tanto da riprodurre, in scala più ampia, un evento già verificatosi quattro anni prima nella stessa zona, sotto gli occhi delle medesime persone. (…) Circa le dimensioni in pianta della massa poi precipitata, esse erano divenute perfettamente conoscibili dal momento in cui fu notata e cartografata, verso la fine del 1960, la profonda fenditura periferica a forma di M – o di omega rovesciato – che intaccava l’alto versante del Monte Toc. Tale fenditura, formatasi in epoca imprecisata nel corso del primo invaso del bacino, ma”scoperta” solo quando una grossa frana di 800.000 metri cubi cadde nel lago il 4 novembre 1960 (…), era lunga 3 chilometri e mezzo, abbracciava un tratto di versante, prossimo alla diga, lungo circa 2 chilometri e circoscriveva una superficie emersa di quasi 2 chilometri quadrati, comprendendo un dislivello di oltre 600 metri. La frana del 9 ottobre 1963 rispettò fedelmente i limiti entro i quali, oltre tre anni prima, s’era preannunciata attraverso l’apertura della fessura perimetrale. (…) Il rilevamento geologico del serbatoio del Vajont non fu fatto, né in occasione del progetto di massima, né a corredo del progetto esecutivo della diga, nonostante le eccezionali dimensioni verticali dell’invaso. Per tale vizio d’origine del funesto impianto idroelettrico la sentenza della Corte d’Appello ha espressioni severe: «deficienza di indagini geognostiche sia durante il periodo degli studi preliminari, sia durante la costruzione»; «supina condiscendenza ai desideri del progettista»; «non pochi dubbi sullo scrupolo con cui devono essere stati compiuti gli studi e le ricerche geologiche e sulla poca accortezza con la quale sono stati espressi i giudizi, sempre favorevoli»; «la superficialità, per non dire la leggerezza, con la quale furono compiute le indagini». (…) Altri gravi indizi tradivano l’esistenza di una pericolosa evoluzione nelle viscere della montagna. (…) Una stazione sismografica installata presso la diga registrò per gli ultimi due anni i microsismi che si producevano a causa del lento strisciamento a strappi dell’enorme massa. (…) L’ubicazione approssimativa degli ipocentri di tali microscosse non poteva lasciare adito a dubbi sulla rilevante profondità della superficie di scorrimento, ormai ignorata solo da chi volesse disconoscere l’evidenza. Le considerazioni ora esposte costituiscono altrettante prove dell’unitarietà della massa in movimento. Nei primi tempi si volle immaginare che il versante, i cui punti di controllo pareva fossero animati da movimenti disuniformi, (…) sarebbe franato in due distinte riprese. La verità era che stava gradualmente allentando le proprie resistenze interne, disponendosi a recidere di colpo gli sporadici vincoli residui. Di tale comportamento v’erano univoche manifestazioni nella generalizzazione della fenomenologia dislocativa a tutta la massa abbracciata dalla fenditura perimetrale. (…) Al processo si fece un gran discutere sulla velocità acquistata dalla frana nei brevi attimi in cui si staccò dal versante, attraversò il serbatoio nel quale il suo piede era immerso e risalì per un tratto sulla sponda opposta. Dell’eccezionalità della velocità si cercò di fare un elemento di imprevedibilità del reato d’inondazione. In realtà la frana cadde con la velocità che le competeva. Prese slancio perché le facce degli strati di supporto erano in parte lubrificate da argilla, in parte spianate nelle loro eventuali asperità e scabrezze dall’immane lavorio d’abrasione che aveva preceduto il distacco, nel corso del lento strisciamento della massa che vi gravava. Non fu frenata perché scivolò su materiali frammentari saturi d’acqua e, varandosi nel lago, ricevette una sottospinta idraulica che la sostenne nel balzo verso la sponda destra. Risalì l’opposto versante perché la morfologia di questo era tale da accoglierla con un minimo di dispersione d’energia per impatto e da favorire l’accavallamento dell’enorme fetta di montagna, conservatasi quasi intatta, nella corsa di 400 metri, sì da mantenere sul proprio dorso gruppi di alberi in posizione eretta. (…) La catastrofe fu ingigantita dall’effetto di pistone che la frana esercitò sulle acque del serbatoio. Il suo fronte, largo due chilometri ed alto circa 200 metri, rimontando sull’opposto versante sospinse davanti a sé alcune decine di milioni di metri cubi d’acqua. La vicina diga fu scavalcata da una lama d’acqua dello spessore di 200 metri in destra e di 100 in sinistra. (…) I controllori ed i consulenti che custodivano il segreto mortale del Vajont, erano (o avrebbero dovuto essere) ben al corrente della fenomenologia inerente alla frana di Pontesei, che fu la vera prova generale, la prefigurazione in scala ridotta della frana del Vajont. Nella stretta proporzionalità dei fattori che determinarono il sovralzo ondoso nei due serbatoi di Pontesei e del Vajont risiede un elemento di prevedibilità schiacciante della catastrofe del 9 ottobre 1963. Anche la”imprevedibile” velocità di caduta della frana del Vaiont doveva per forza assumere lo stesso ordine di grandezza nei due casi, con il dovuto rapporto di scala. Se adeguatamente interpretata, la frana di Pontesei avrebbe rilevato con anni d’anticipo la sorte cui stava andando incontro la gente del Vajont.

Estratto da: «Sapere» n.768 vol. LXXV, gennaio 1974

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Roma 13 marzo 1998

“Giornata internazionale per i fiumi, le acque, la vita”

Presentazione del rapporto

“Grandi dighe, diritti dei popoli e dell’ambiente”

a cura della “Campagna per la riforma della banca mondiale” e della Fondazione internazionale Lelio Basso Intervento di: Renzo Franzin*

“Dopo la tragedia del Vajont, il destino del bacino del Piave”

Il 9 ottobre 1963 la tragedia del Vajont cancella tre paesi, provoca più di duemila morti e sottrae d’un sol colpo al sistema di produzione idroelettrica e di sfruttamento del Piave a fini irrigui, una riserva di 150 milioni di mc d’acqua. Un dato che, al di là delle stesse ragioni che determinarono la catastrofe, avrebbe dovuto da solo far rivedere al subentrante ENEL (il nuovo ente per l’energia elettrica perfezionava in quei mesi, l’acquisto della società privata SADE) i programmi di produzione di energia elettrica previsti per gli anni successivi e, contestualmente, avviare la revisione quantitativa dei disciplinari per le concessioni ai Consorzi di Bonifica della pianura. Non succede nulla di tutto questo, anzi l’ENEL mantiene gli obiettivi prefissati e li adegua all’onda crescente di sviluppo delle aree industriali di pianura fino ai giorni nostri con uno sfruttamento esponenziale dell’acqua del Piave. E qui inizia una nuova, trentennale tragedia poco conosciuta, ma che ha già avuto le sue vittime (alluvione del 1966), i suoi danni ingenti al territorio ed al patrimonio materiale dell’intera regione (le piene incontrollate degli anni successivi), sino all’incombere di un rischio idraulico diffuso per parti consistenti delle province di Venezia e Treviso come evidenziano i recenti studi (1996) prodotti in allegato ai rispettivi Piani Territoriali Provinciali. Ciò nonostante, per poter mantenere gli obiettivi prefissati, l’ENEL ha completato in questi decenni, con impressionante metodicità, l’intera trasformazione artificiale del bacino montano del fiume per tutta la sua estensione (in un’area di circa 3.750 Kmq), succhiando tutte le acque dei torrenti affluenti ad alta quota, riutilizzando attraverso sistemi di sfruttamento integrati, più volte, la stessa acqua che viene pompata, incanalata e, alla fine, persino indirizzata verso bacini diversi da quelli d’origine. La rete artificiale che ormai ha soffocato il fiume conta di una cinquantina di “prese” ad alta quota che drenano l’acqua dei torrenti (circa il 75% della quantità in scorrimento per circa 2.000 milioni di mc l’anno), un gigantesco sistema di by-pass di oltre 200 km di tubature in gran parte sotterranee, 17 invasi di media grandezza, 30 impianti di produzione e un’infinità di altri sbarramenti funzionali. È drammaticamente esemplare il fatto che l’acqua scesa dal ghiacciaio della Marmolada ad altissima quota verso gli affluenti del Piave continua la sua corsa attraverso percorsi completamente artificiali sino a sfociare in un altro fiume, il Sile; allo stesso modo, parte consistente dell’acqua del medio corso del fiume Piave viene deviata in forte quantità (circa 40 mc/s) verso il bacino del Livenza, nel Veneto orientale. Ancora: i Consorzi di Bonifica della pianura hanno continuato ad usare con grandi sprechi l’acqua del Piave, drasticamente prelevata dal corso naturale e deviata verso le prese, usando antiquati sistemi irrigui (il metodo a spaglio già introdotto dalla Serenissima Repubblica di Venezia) senza provvedere ad ammodernare progressivamente la rete per evitare sprechi. Completano il quadro degli usi delle acque del Piave i prelievi autorizzati (alcuni grandi acquedotti fra cui quello di Venezia) e quelli abusivi (centinaia di aziende dell’alta pianura trevigiana e migliaia di fontanili privati) che sottraggono in zona di risorgive una quantità enorme – difficilmente quantificabile – di acqua alla funzione di ricarica delle falde acquifere che alimentano molti corsi d’acqua della pianura. Negli ultimi trent’anni, questo dissennato sfruttamento ha ridotto di circa 1/3 la portata del fiume nella sua parte finale, ha del tutto prosciugato circa il 90% dei torrenti d’alta montagna (dati della CIPRA), con conseguenze strutturali abnormi: il letto ghiaioso del fiume, largo in alcuni punti anche alcuni chilometri, modulato nei secoli dalle piene, si è alzato di circa 3 mt, non avendo la corrente più la forza necessaria per portare detriti e sabbia a valle. Di conseguenza, gli arenili a nord della laguna di Venezia (Cavallino, Jesolo, Eraclea) sono stati mangiati dall’erosione marina causa il mancato ripascimento; nelle piane ghiaiose del greto sono cresciuti interi boschi cedui che costituiscono ostacolo al defluire delle acque di piena e la qualità dell’acqua, quasi completamente scomparsa nell’alto e medio corso, è fortemente compromessa da scarichi biologici ed industriali. Di fronte a questa situazione e ai danni che ha provocato e continua a provocare lo sfruttamento intensivo del Piave, i bellunesi dal 1994 hanno incominciato a manifestare un’opposizione radicale e diffusa. I caratteri di questa vera e propria guerra con l’ENEL, i Consorzi di Bonifica e tutti gli utilizzatori legali e abusivi dell’acqua del Pive, sono innovativi nel metodo e nella sostanza. Nel metodo, i protagonisti sono gli enti locali rivieraschi coordinati dalla provincia di Belluno, al di là di ogni schieramento politico, con un forte coinvolgimento delle popolazioni. Nella sostanza, i bellunesi rifiutano la delega ad altri per decidere delle sorti del Piave e non accettano più la monetizzazione dei danni; puntano ala ricontrattazione dei disciplinari di concessione ai Consorzi e all’ENEL; chiedono massicci investimenti per il recupero dei danni idrogeologici e la rinaturazione di grandi tratti del fiume. Hanno ottenuto, finora, l’impegno formale del Ministro ai LL.PP. Costa per la presentazione di uno stralcio di Piano di bacino che riguardi il Piave e la convocazione di un “tavolo unico per la trattativa”, entro il 1998. Ambedue gli impegni non si sono ancora concretizzati: nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, lungo le acque del Tagliamento – altro grande fiume alpino saccheggiato dallo sfruttamento – è nata un’iniziativa analoga a quella del Bellunese e ad Enemonzo (località storica della Carnia) si è costituito, qualche giorno fa, il Comitato per la Salvezza del Fiume.

*membro del direttivo e in rappresentanza dell’Associazione Culturale Tina Merlin