I giornali dell’epoca

10 ottobre, 10-11 ottobre, 11 ottobre (pag. 1), 11 ottobre (pag. 2), 12 ottobre (pag. 1), 12 ottobre (pag. 2), 13 ottobre, 14 ottobre, 15 ottobre, 16 ottobre, 20-27-29 ottobre, 3 novembre, 28 dicembre, 11 ottobre 1966 e 02 febbraio 1968, così scrivevano

Come hanno trattato i giornali, dell’epoca, il disastro del Vajont? Cosa hanno scritto i giornalisti? Come si sono comportati i grandi inviati e le grandi firme? Questa mostra ci offre una visione d’insieme della stampa italiana nei giorni immediatamente successivi al disastro. Nonostante l’alto numero delle prime pagine dei quotidiani qui esposte, si tratta ancora di una scelta necessariamente limitata: restano fuori, se non altro per ragioni di spazio, le pagine interne dei giornali ed altre prime pagine spesso ripetitive (e tuttavia, nella ripetizione, significative perché indicatrici di un “comune sentire”, se non di una vera e propria omologazione o di una scelta di carattere politico).
E’, comunque, una esauriente “antologia”: nella titolazione, nelle fotografie, nei commenti, nel trattamento dei temi e nell’ordine delle priorità. Il trattamento della notizia non è soltanto il frutto finale di scelte tecnico-professionali che si vorrebbero neutrali, ma risente in misura significativa del retroterra culturale e politico di riferimento: il registro dei diversi giornali rende cioè esplicito il messaggio che vogliono trasmettere.
Così L’Unità, il giornale del Pci, l’unico che, con gli articoli di Tina Merlin, aveva raccontato prima del disastro quanto stava accadendo sul Vajont, insisterà sulla denuncia delle responsabilità, anche con grandi titoli esortativi; i giornali di area governativa (Il Corriere della Sera, in primo luogo) sceglieranno invece il registro della commozione e della pietas per i morti, sottolineando la corsa alla solidarietà – nei soccorsi, nelle donazioni – mentre nei commenti escluderanno quasi subito la prevedibilità del disastro e l’esistenza di responsabilità politiche. Il Giorno, quotidiano filo-socialista (il Psi era da poco entrato nel governo ed aveva sostenuto con forza la nazionalizzazione delle aziende elettriche) ondeggerà tra le cronache scomode di Guido Nozzoli e i commenti assolutori di Giorgio Bocca.
E’ in questo contesto che si spiegano i fondi anti-Pci di Montanelli che accusa i comunisti di “sciacallaggio” (in sintonia con i manifesti della Dc), quelli di Bocca che dà la colpa alla natura (“Non c’è più nulla da fare o da dire tra fango e silenzio”) o di Dino Buzzati (“Natura crudele”) che escludono la prevedibilità della tragedia.
Nei giornali esposti sono rintracciabili alcuni elementi di forte novità per l’epoca: la vera e propria rivoluzione grafica introdotta dal Giorno (soprattutto nell’uso della fotografia) e l’utilizzo – ancora parziale ma già significativo – del colore, pur ancora limitato ai titoli o ad alcuni segni grafici.
Rimane invece sullo sfondo un’altra rivoluzione: fu sul Vajont che per la prima volta la Rai (all’epoca una sola rete in bianco e nero) salì sugli elicotteri documentando la realtà terribile della devastazione e trasmettendola in tutte le case, rendendo improvvisamente vecchie e superate le eleganti cronache di taluni “principi della penna”, inviati di grido che magari avevano attinto le loro informazioni da fidati collaboratori senza però essere stati davvero sul posto.
Da: Il potere di carta. Il dopo-Vajont e la lotta delle parole di Mario Isnenghi in Il Grande Vajont (Cierre edizioni)
Lo spazio, la durata e la qualità della copertura giornalistica assicurata alla catastrofe e al dopo-catastrofe dai diversi quotidiani rimanda non solo a scelte e priorità d’ordine politico (far vedere o non far vedere, riflettere o voltarsi dall’altra parte); ma ad un complesso di motivazioni e di circostanze, alcune delle quali di natura tecnica. (…) Naturalmente, condizioni tecniche, scelte redazionali, posizioni di campo, priorità di interessi, matrici culturali, orientamenti politici, destinatario, dislocazione geografica e socio-politica del pubblico: tutti questi, ed altri, fattori concomitanti, intrecciandosi insieme in vario modo e misura, possono dar luogo a comportamenti anche sensibilmente differenziati. (…)
La terza pagina [del Corriere della Sera] inalbera (…) una espressione che può suonare equivoca o quanto meno prematura, traducendosi in una parola d’ordine di sapore rinunciatario sulle responsabilità: CORAGGIO, SEPPELLIAMOLI, NON C’E’ ALTRO DA FARE.  (…) In realtà la posizione del Corriere, che questo primo giorno appare ancora ondeggiante, si rivelerà più problematica e sfumata di quanto questa pagina di venerdì non lasci supporre (…). Buzzati costruisce il suo intervento (NATURA CRUDELE) su due motivi: quello, estremamente buzzatiano, della enigmatica strapotenza della Natura; e la perentoria asserzione che la tecnica non ha tradito, l’uomo non ha sbagliato i calcoli, la mirabile diga è rimasta intatta. Ancor più, per questo, risalta l’irresistibilità di quel potere. Il problema è che il giornalista Buzzati – condotto per le sue vie dallo scrittore Buzzati – tace sulle frane e le avvisaglie che precedono lo sprofondamento finale; e che, nell’enunciare il combinato disposto dei suoi due criteri di lettura, non si lascia dubbi né vie d’uscita dietro le spalle. Sulla base di questo articolo non nascerebbe nessuna commissione d’inchiesta. Le cause naturali e non tecniche e un vero inno tecnologico alla straordinaria modernità della diga, tornano in questa pagina nella nota tecnica, di provenienza romana, di un collaboratore che si firma “Silvar” e le cui posizioni il giornale riassume nei titoli-parola d’ordine: La fatalità causa prima a Longarone (sommario) LE FORZE DELLA NATURA / HANNO PROVOCATO LA CATASTROFE.
L’Unità ha la prerogativa rara di non scoprire, diciamo così, la diga del Vajont, oltre che i problemi sociali delle vallate bellunesi, nei giorni eccezionali, visto che ne aveva parlato nei giorni ordinari. (…) A Tina Merlin spetta (…) di assumere le funzioni inconsuete di personaggio, più ancora che di giornalista in atto, in quanto è lei l’autrice dei servizi con cui L’Unità ha preannunziato con anni di anticipo la tragedia che è poi avvenuta. E’ lei infatti la giornalista processata – e assolta – dal tribunale di Milano, in un processo che ha riconosciuto legittimi gli allarmi e le preoccupazioni a cui il giornale comunista ha dato risonanza: riconoscimento al quale non sono però poi seguiti interventi concreti. Proprio questa è la contraddizione colta e valorizzata dall’Unità, che ritiene di avere il diritto di proclamare che, dopo tutto, non è vero che la catastrofe fosse imprevedibile e imprevista e possa ora venire inquadrata nell’ordine delle fatalità che non comportano colpa ma solo umana pietà. Ecco infatti il titolo di prima (…): I MORTI SOTTO IL FANGO / UNA STRAGE CHE SI POTEVA EVITARE.
Nel 1963 Il Giorno è appena al suo ottavo anno di vita ed è impegnato nel suo sforzo di esprimere – da buon milanese, legato al capitale pubblico e alla formula dei nuovi governi di centro-sinistra – quanto v’è di più moderno nel paese. Vuol essere l’anti-Corriere, l’espressione dei nuovi gruppi dirigenti e dei ceti in ascesa, e in quegli anni vi riesce. (…) Tecnicamente, Il Giorno ha dalla sua un linguaggio giornalistico assai più moderno, che ha incorporato ormai normalmente l’immagine nella parola. (…) In prima pagina una “Situazione”, l’articolo di fondo del Giorno, affidata ad una delle penne più sobrie e stimate del giornale: Enzo Forcella. Il titolo – Fatalità della natura e responsabilità dell’uomo – lascia aperte tutte le porte. E così fa il resto: “E’ l’altra faccia del progresso. L’uomo vince la natura (…) e la natura si vendica dell’uomo, introducendo l’imponderabile nelle sue costruzioni e nei suoi calcoli”. Poi ecco la domanda chiave, senza drammatizzazione, ma ferma: “Ma sino a che punto imponderabile?”. (…) Fra gli inviati, Franco Nasi, a cui spetta il pezzo di cronaca da Belluno; Guido Nozzoli e Giorgio Bocca (…) Un Bocca scosso e turbato fa, diciamo così, della filosofia della storia. (…) Sarà forse un po’ crudo e tranciante il titolo con cui il giornale riassume le considerazioni di Bocca (…), ma è un fatto che NON C’E’ PIU’ NULLA / DA FARE O DA DIRE / TRA FANGO E SILENZIO suona alquanto remissivo, e certo inadeguato rispetto al dibattito tecnico-politico-giudiziario che sta per scatenarsi.
Per Il Gazzettino, il vecchio quotidiano del conte Volpi, ereditato nel ’45 dalla Democrazia Cristiana, la Sade è cosa di casa e anche il solo mormorarne costa di più che ad altri. E però, c’è una parte del suo pubblico tradizionale in provincia che ha sofferto nella carne e nel sangue sia le scelte di dominio esercitate su questa regione nel passato, sia quelle di gestione e di controllo – o di mancato controllo – venute dopo. (…) La regia complessiva del giornale procede, per dir così, ad una “autoriduzione” del monte-notizie fatto affluire dai cronisti e ad una derubricazione dei margini di dubbio che le “voci” raccolte potrebbero rischiare di avallare in qualche lettore. Questa griglia rassicurante e protettiva entra in funzione (…) con la reiterazione di due ingredienti essenziali: lutto e pietà unanimi; fervore di soccorsi e assicurazioni di autorità. (…) Ad aggiungere cautela a cautela, provvede un articolo di commento del direttore, fatto slittare in seconda, e scritto proprio in punta di piedi, esibendo riserbo e ponderatezza per tutte le possibili direzioni verso cui “la voce pubblica” ha già cominciato a indirizzare i suoi sospetti: “Già la voce pubblica, lesta nell’attribuire responsabilità, e nel distribuire condanne, leva il sospetto dell’imprevidenza (…). Ed accade che certa opinione, troppo sollecita, vorrebbe attribuire colpe, per trascuranza, allo Stato che gestisce gli impianti (…). Ma sono ubbie. (…) Comunque la Magistratura, subito intervenuta, ha iniziato, come è suo costume, con grande riservatezza, una inchiesta (…). Soltanto così sapremo se alla tristezza malinconica del rammarico per la fatalità dell’evento naturale, dovremo aggiungere il doloroso rincrescimento di constatare che l’evento poteva avere conseguenze meno gravi” (Giuseppe Longo, Sgomento).

 COSI’ HANNO SCRITTO

Ecco la valle della sciagura nel crepuscolo del mattino: fango, silenzio, solitudine. E capire subito che tutto ciò è definitivo: più niente da fare e da dire. Cinque paesi, migliaia di persone: ieri c’erano, oggi sono terra, e nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare. In tempi atomici, si potrebbe dire che questa è una sciagura “pulita”, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. Ci vogliono queste sciagure per capirlo: la terribile forza della natura che si scatena a caso. Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura volesse muoverci guerra. (…) Forse potrà sembrare crudele ciò che sto per dire, ma questa sciagura così “pulita”, così ineluttabile, così totale induce più alla melanconia che al dolore. Non c’era niente da fare, non ci sono colpevoli. Ci siamo solo noi, i moscerini, che vogliamo conquistare l’Universo, dichiarare guerra alla natura, ricostruire con tenacia la nostra torre di Babele e poi un mattino, nel crepuscolo davanti a una tale cancellazione, ritroviamo le nostre misure. (Giorgio Bocca, Non c’è più nulla da fare o da dire tra fango e silenzio, Il Giorno, venerdì 11 ottobre 1963, p. 3)

La sciagura del Vajont poteva essere evitata? Posta in termini tanto perentori, la domanda assume un senso drammatico e angoscioso. (…) La Commissione d’inchiesta dovrà accertare le cause e stabilire la responsabilità del sinistro; e sarebbe una dilettantesca avventatezza l’anticipare conclusioni puntando il dito contro questo o contro quello. Ma non si deve neppure dire che tutto è accaduto per volontà del caso, per una congiura del fato, per un concorso di cause imprevedibili e imponderabili. Non si può fare il processo al fulmine; però si può fare il processo agli uomini che costruiscono case senza parafulmini. La natura ha reazioni rabbiose e incontrollabili come gli uragani e i terremoti di cui la nostra scienza sa soltanto registrare la violenza. Una frana non è né un uragano né un terremoto: il suo moto ora lento e insidioso ora catastroficamente improvviso è spesso preceduto da segni premonitori di cui gli scienziati sanno interpretare, con relativa approssimazione, il significato. (Guido Nozzoli, La catastrofe anticipata in un esperimento, Il Giorno, sabato 12 ottobre 1963, p. 1 e 18)

Un sasso è caduto in un bicchiere colmo di acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, che non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimoniava della tenacia, del talento e dei coraggi umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro, perfino dal lato estetico. (…) Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, della ingegneria, della tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato. (…) Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta della fantasia della scienza. Sconfitta in aperta campagna, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. (Dino Buzzati, Natura crudele, Corriere della Sera, venerdì 11 ottobre 1963, p.3)

Come è stata possibile questa strage, di cui da anni era stato denunciato il pericolo? Come può essere accaduto che il parere di eminenti geologi sia stato ignorato, che le prese di posizione unanimi di assemblee elettive in cui la Dc detiene la maggioranza assoluta siano state gettate nel cestino? Come è possibile che le denunce dei parlamentari comunisti, socialisti, e degli stessi dc locali non abbiano sortito alcun effetto? Come può essere successo che un giornale, il nostro giornale, sia stato addirittura processato per aver gridato al pericolo? E come si spiega che una sentenza della Magistratura ci abbia assolti riconoscendo la veridicità delle nostre accuse senza che a questo abbia fatto seguito alcun atto per impedire che la minaccia incombente diventasse una luttuosa realtà? (…) E’ stato un assassinio! Con queste parole si è espressa oggi la collera dei sopravvissuti di fronte al presidente del Consiglio, e questo è bastato per togliere subito alla visita dell’on. Leone quel tono di pellegrinaggio pietoso che sembra d’obbligo in circostanze come questa.
(Aniello Coppola, I responsabili, L’Unità, sabato 12 ottobre 1963, p.1)
C’è l’ipocrisia di chi invoca il silenzio di fronte ai lutti e alle devastazioni, che incolpa di tutto le forze della natura. E c’è chi ci considera soltanto dei giornalisti più bravi e più coraggiosi degli altri ed è disposto a riconoscere che sì, qualche straccio di tecnico può essere buttato all’aria purché non si tocchi il sistema, purché non si arrivi alla radice. Non sono né più brava né più coraggiosa di tanti miei colleghi. Non volevo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche ad esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita.
(Tina Merlin, Magari fossi riuscita a turbare l’ordine pubblico! L’Unità, domenica 13 ottobre 1963 pp. 7 e 8)