Emigrazione e territorio

10 aprile 1963 – Varie

La sciagura di Valle Aurina

BELLUNO IN LUTTO ATTENDE

I MORTI DELLA VALANGA

Dal Corrispondente

BELLUNO, 9 aprile

Cinque operai bellunesi morti assieme sotto una valanga di neve è una notizia sconvolgente e drammatica anche per la popolazione di una provincia abituata da secoli a stare col cuore sospeso, sempre in attesa di qualche dolorosa notizia dai cantieri all’estero e delle altre province italiane, dove la manodopera bellunese è più che di casa.

Qui, in queste zone di emigrazione, quando un lutto colpisce una famiglia, l’intera comunità si sente partecipe della disgrazia. «È capitato a te, ma potrebbe essere capitato a me», è una frase che qualche volta si dice ma che più spesso si indovina, soprattutto nel muto linguaggio delle donne degli emigrati, madri e spose accomunate per anni dallo stesso tarlo doloroso delle lunghe separazioni dai mariti e dai figli; dalla paura di sciagure, e purtroppo dalla speranza che non succedano, e infine dall’attesa spasmodica del loro ritorno stagionale.

E così, domani o dopodomani, altri cinque lavoratori torneranno alle proprie case, ma dentro una bara. Sono i cinque bellunesi ghermiti ieri dalla «morte bianca» in Valle Aurina, un luogo a quattro passi da casa, dove erano contenti di essere andati a lavorare, avvezzi com’erano quasi tutti all’emigrazione in terre lontane.

Le loro famiglie, alcune delle quali hanno appreso la notizia dai giornali, sono piombate nella disperazione.

Non abbiamo fatto gli sciacalli in cerca di notizie intime; abbiamo rispettato il dolore delle famiglie. Ma abbiamo parlato con amici e conoscenti delle vittime nei loro paesi d’origine. E ancora una volta, come purtroppo molto spesso è avvenuto, le conversazioni hanno illustrato la solita triste condizione di una provincia senza lavoro, che costringe i propri abitanti a vere odissee, sballottandoli in giro per il mondo in nome di una civiltà tanto decantata dai nostri governi ma tanto lontana dai bisogni degli uomini.

Ecco il paese di Vito Lise, anni 38, capo minatore, e di Angelo De Zanet, di 35 anni: Sospirolo. Quattromila abitanti, il 90 percento degli uomini validi emigrati. Registra la percentuale più alta in tutta la provincia di silicotici.

Anche Vito Lise, il capo minatore, travolto dalla valanga, aveva ormai girato, a trentotto anni, mezzo mondo: la Svizzera, il Congo, l’Argentina, il Venezuela. Quando tornava reclutava altre persone del villaggio di San Zenon, dove abitava, ed esse gliene erano grate. Andavano volentieri con lui, lo stimavano per la sua serietà e preparazione professionale. Era figlio di minatore. Suo padre è attualmente all’ospedale con la silicosi. Con lui in valle Aurina c’erano altri due fratelli; uno si è salvato per caso dalla valanga.

Angelo De Zanet, pure lui da San Zenon, faceva parte di una schiera di cinque fratelli, che sono tutti emigrati. Lui aveva conosciuto tutte le miniere di ferro e di carbone della Germania.

Questo è il paese di Sospirolo, dove oggi una terza famiglia di emigrati è in lutto. L’operaio Francesco Viel, di 53 anni, è deceduto di sincope in un cantiere della Svizzera.

Trichiana, Longarone, San Gregorio nelle Alpi, i paesi degli altri tre operai deceduti in valle Aurina, presentano le stesse caratteristiche. Tre-quattromila abitanti, un migliaio di emigrati.

Giovanni De Bastian, di Trichiana, era figlio unico. Sua madre non fa che ripetere, pazza di dolore: «Chissà quante volte avrà chiamato aiuto prima di morire». Nessuno riesce a convincerla che suo figlio è morto sull’istante.

Di Antonio Bristot, da Longarone, le donne della frazione di Pirago, dove abitava con la famiglia, assicurano tutte «che era un grandissimo lavoratore». È il massimo omaggio che le genti di montagna possono rivolgere a un morto.

La quinta delle vittime, Renato Bulz, da San Gregorio nelle Alpi, era il più giovane: diciassette anni appena. Un’età in cui non si è ancora uomini per le leggi dello Stato ma purtroppo si è considerati uomini da sfruttare sul piano fisico e produttivo.

L’elenco delle vittime sul lavoro si allunga così anno dopo anno, accanto alle località dove avvengono le sciagure, che restano impresse per sempre nella memoria delle famiglie degli emigranti bellunesi. Non importa se le disgrazie avvengono in Italia o all’estero, se la località si chiama Marchinelle, Zermatt o Valle Aurina. Esse significano comunque sempre sofferenze e dolore per le famiglie dei trentasettemila emigrati bellunesi e richiamano alle loro gravi responsabilità i governanti italiani, che mai hanno voluto prendere in seria considerazione il problema delle zone di emigrazione, salvo che sul piano dei discorsi e delle promesse, specialmente nei periodi delle varie campagne elettorali.

Tina Merlin

23 gennaio 1963 – Le Regioni (Triveneto-Emilia)

Nel paese senza strada

20 CHILOMETRI A PIEDI

PER LA SPOSA DI ARSIE’

Dal Corrispondente

BELLUNO, 22 gennaio

A Carassagno D’Arsiè trentaquattro persone continuano lo sciopero a rovescio, per la costruzione della strada che colleghi la frazione al capoluogo. Il loro gesto continua ad avere la solidarietà della stampa e perfino della radio, che oggi ha trasmesso nel notiziario veneto un servizio registrato sul luogo.

Le uniche persone che ancora non si sono mosse sono le autorità comunali, provinciali e centrali, alle quali erano state inoltrare petizioni e telegrammi, il tutto rimasto ancora senza risposta. Il sindaco se ne lava le mani con la scusa che non ci sono soldi e quindi la questione deve essere risolta dal centro. Ciò può essere vero, ma lui, come prima autorità del Comune, cosa fa per far intervenire o sollecitare ad intervenire le autorità centrali?

E il prefetto, al quale era stata inoltrata una petizione firmata da coloro che hanno dato inizio ai lavori, il prefetto, che rappresenta il governo centrale, cosa ha fatto per venire in aiuto di questa gente che è sotto la sua giurisdizione? E il ministro Bertinelli, informato con un telegramma di quanto sta accadendo a Carassagno?

Silenzio si tutto il fronte della Democrazia cristiana e del governo.

Intanto, quelli di Carassagno continuano a dodici giorni la loro azione di protesta, proseguendo i lavori di sterro perché la loro strada la vogliono veder fatta. Sono decisi ad andare fino in fondo, e dopo qualcuno dovrà pure pagare il lavoro fatto.

«Perché avete dato inizio ai lavori?». A questa domanda dei radio-intervistatori hanno risposto diversi protagonisti dello sciopero a rovescio. «Perché non crediamo più alle promesse»; «Perché la strada è il principale elemento di civiltà»; «Per non restare più isolati dal mondo»; «Per poterci recare dal medico e in farmacia». Una donna che partecipa allo sciopero, ha risposto: «Domani una ragazza della frazione di sposa e deve fare a piedi venti chilometri per recarsi in chiesa».

Tutti gli abitanti del villaggio hanno un loro validissimo motivo per volere la strada, un motivo che ha trovato nella solidarietà di ognuno di loro il coraggio di diventare forza ed unità e di dare avvio ai lavori che non interromperanno, fino a quando le autorità competenti non manifestino concretamente la volontà di realizzare l’opera tanto necessaria.

Pensiamo alla giovane sposa di Carassagno, che nella giornata più bella della sua vita, è costretta a percorrere infreddolita il lungo sentiero infangato, senza l’ausilio di un mezzo necessario. Le provviste per il pranzo di nozze dovranno essere portate a spalle dai Boldi, l’acqua per cuocerle dovrà essere attinta e trasportata a spalla dai Boldi, una borgata a tre-quattro chilometri da Carassagno, dove c’è l’unico acquedotto di tutta la zona, rappresentato da un lungo e rattoppato tubo di gomma che, sospeso per aria sopra il torrente, attraversa la valle da un versante all’altro, e riversa il suo prezioso liquido in un mastello posto a fianco della carreggiata.

È l’unica «moderna» opera pubblica fatta dall’Amministrazione comunale, tranne la scuoletta dei Boldi, che però è chiusa, essendo stata costruita troppo distante dal luogo dove sono i bambini in età scolastica.

Tina Merlin

8 gennaio 1967 – Veneto

Assemblea degli abitanti di California, il paese distrutto dall’acqua e dalle frane

NON VOGLIONO ESSERE MANDATI

IN UN «GHETTO» A 1500 METRI

Rivendicano il diritto di abitare in una zona dove vi siano lavoro e scuole – Impossibile ricostruire dove prima sorgeva l’abitato – Un consorzio di capifamiglia?

Dal Corrispondente

BELLUNO, 7 gennaio

California è un paese che un tempo esisteva, lindo, colmo di vegetazione, posto in fondo alla valle del Mis, dove vivevano una cinquantina di famiglie che si erano costruite la casa dopo tanti anni di miniera e di emigrazione. C’era pure un albergo, messo su da tre intraprendenti fratelli, dove d’estate si era affermato un «turismo minore» fatto da chi intende la villeggiatura come un riposo dello spirito.

California è un nome inconsueto da queste parti; chissà, forse, la zona che abbraccia diversi villaggi abbarbicati sui costoni delle montagne era stata così denominata da qualche emigrante tornato dall’America; o da qualche solitario escursionista che di fronte alle bellezze dei boschi, delle acque un tempo chiarissime dei torrenti, gli sarà venuto spontaneo alle labbra quel nome prestigioso, in una esclamazione di stupore, di ammirazione.

Sta di fatto che un nome così non era sprecato per il luogo, reso in questi ultimi anni confortevole dalle case sorte tutte intorno, con i fiori ai davanzali, gerani rossi che spiccavano come grappoli di ciliege mature sullo sfondo verde del paesaggio; poi, lì vicino, avevano costruito anche un lago ed anche quello attirava i turisti. tutto questo esisteva prima del 4 novembre 1966. Poi venne il diluvio e fu la fine di una località conosciuta da pochi, della quale, col tempo, si perderà anche il ricordo.

Ora è tutta un ghiaione: le verdi montagne sono franate dentro la valle; i due torrenti che si congiungevano proprio all’imbocco del paese, hanno allargato i loro alvei a dismisura; California è stata quasi del tutto spazzata via dalla furia degli elementi e quel poco di essa che ancora si vede è sommerso dai detriti. La gente ha fatto in tempo a fuggire, a mettersi in salvo con l’acqua che incalzava e le frane in movimento.

Ora è sparsa un po’ ovunque, da parenti domiciliati in altri paesi, o a Gosaldo, il capoluogo, anch’esso terremotato dal triste evento. Molti sono stati i paesi bellunesi devastati dall’alluvione, ma chi ha perso la casa potrà rifarla nello stesso paese. A California non si potrà ricostruire nulla, poiché non esiste più un terreno solido, non esiste la possibilità di rifare le strade, il luogo è ormai terra bruciata.

Del resto sono gli stessi abitanti che non vogliono ritornare. A far cosa? Terra da lavorare non ce n’è più; di turismo è assurdo parlare. La Giunta municipale sembra sia dello stesso parere; soltanto cerca di trattenere nella zona la gente. Si parla di trasferire l’abitato di California in cima ad una montagna, a S. Andrea, a 1500 metri di altitudine «dove non cresce neanche un cavolo».

Contro questa ventilata soluzione uomini e donne di California si oppongono. Bisogna trasferirsi, ricominciare tutto da capo? Ebbene dateci un luogo decente per impiantare il nostro paese, dove vi siano terre da coltivare, scuole per i nostri figli, qualche possibilità di trovare lavoro.

Queste cose sono state dette durante una assemblea promossa dal capofrazione, alla quale hanno partecipato anche il segretario regionale del partito comunista, Marangoni, il segretario provinciale, Olivotto, l’onorevole Busetto. Da tutta la California – una decina di villaggi lontani diversi chilometri – erano giunti in una località chiamata Lambroi, uomini e donne e ragazzi per discutere «ciò che non si può discutere col sindaco, perché non ti ascolta; ciò che non si può discutere col prefetto perché ascolta soltanto il sindaco. E così il nostro parere non si sente mai, e quando i nostri emigranti ritornano via, alle donne ed ai vecchi fanno firmare qualsiasi cosa e li sistemano come vogliono. Oppure la tirano per le lunghe, intanto ci dicono di sfollare: la tattica è conosciuta. Più si aspetta, più la gente se ne va via e più lo Stato risparmia».

Circa 500 persone di California centro e di diversi villaggi con le case in bilico sulle frane – Patine, Mori, Beltrai, Rozze, Macator, Noneta, Scoli, Zocche – non sanno che fare di preciso, soltanto sono tutti d’accordo che dove sono non possono stare (in primavera potrebbe capitare di nuovo il finimondo) non vogliono essere reclusi in un ghetto a 1500 metri, ma vogliono scendere, invece di salire, avvicinarsi alla società organizzata.

Si è parlato della costituzione di un consorzio dei capifamiglia, per poter imporre all’autorità una scelta secondo queste esigenze. La scelta di un luogo anche in un altro Comune, dove la comunità possa rimanere unita.

Alla fine della riunione hanno voluto che i dirigenti comunisti facessero un giro nella zona disastrata. A un certo punto le strade non esistevano più; si passava soltanto su piste che il ghiaccio e la neve hanno reso solide sopra i torrenti e le frane. Un paesaggio da dopo il diluvio.

Dentro quello che resta dell’albergo di California, semicrollato, interrato fino al primo piano, sberciato e divelto, in una piccola cucina, la padrona offre la grappa e gli uomini che hanno seguito la comitiva discorrono fra di loro alla ricerca di un tempo perduto: «Ricordi quando ci si riuniva qui, la sera, a bere l’ombretta, tutti insieme tutti uniti?». Uno dice: «Venti anni di emigrazione mi era costata la casa. L’avevo appena finita la scorsa estate!». Un altro più anziano: «Quarant’anni sono andato all’estero. Ora mi ero un po’ sistemato»., sospira e aggiunge con rabbia parlando al plurale: «Tutte le nostre fatiche andate in malora».

È facile registrare o leggere simili cose. Naturalmente ci si commuove, si partecipa all’altrui smarrimento. Ma proviamo un po’ a metterci noi al posto di questa gente, proviamo ad immaginare di avere faticato nelle miniere o nei cantieri edili dell’estero venti, trenta, quarant’anni, per farci una casa, con ore straordinarie, con la silicosi e vedersi rubare la casa a un tratto e pensare di aver perduto la giovinezza, di aver faticato proprio per niente.

È una tragedia che sconvolge. E malgrado ciò, questa gente è ancora tanto equilibrata da discutere con calma. L’essenziale è ricominciare, come si può, ma ricominciare, più in fretta possibile e con una chiara visione davanti. Tutti uniti ancora perché almeno le consuetudini e i legami di una comunità non vadano dispersi. La proposta del consorzio è nata da queste esigenze. Che bisogna rispettare.

Tina Merlin

20 febbraio 1966 – Tre Venezie

A Sedico l’estremo saluto ad Angelo Casanova

HA PAGATO CON LA VITA

IL SUO DIRITTO AL LAVORO

Una grande folla alle esequie del minatore morto in Svizzera – La via della emigrazione costellata di lutti per il profitto delle grandi società industriali

Dal Corrispondente

BELLUNO, 19 febbraio

Nel cimitero di Sedico è stato sepolto oggi il minatore Angelo Casanova, accompagnato all’ultima dimora da una grande folla in lutto. Appena cinque mesi fa la stessa folla aveva accompagnato al medesimo cimitero altri tre compaesani, morti a Mattmark.

Un dolore che si rinnova

È un dolore che si rinnova per tragedie purtroppo ricorrenti non solo a Sedico, ma in tutti i paesi della provincia: non ce n’è uno che non abbia emigranti all’estero, soprattutto nei luoghi dove si costruiscono dighe e bacini idroelettrici. I nostri lavoratori sono ormai specializzati in questi impieghi: in parte per la tradizione ereditata dai padri minatori, in parte per l’esperienza acquisita nei loro paesi d’origine a lavorare nelle gallerie per la costruzione dei numerosi bacini idroelettrici, realizzati nel Bellunese. Realizzazioni grandiose, ma pericolosissime e lo sanno bene le società costruttrici tanto da preventivare il rischio delle vite umane sul conto della spesa complessiva dell’opera.

Quanti dei nostri concittadini hanno finito la loro vita dentro una galleria, sotto una frana, o cadendo da una impalcatura? In appena venti anni certamente diverse centinaia. È del giorno dopo la sciagura del Canton Ticino la notizia pervenuta dal Ghana che annunciava la morte, avvenuta in seguito a una esplosione in galleria, di Angelo Zangrando, da Perarolo. Anche lui lavorava in un cantiere idroelettrico.

Tre emigranti morti sul lavoro in due giorni. Spesso la notizia di un decesso passa quasi inosservata, a meno che non coinvolga un gruppo numeroso di vittime. Si sente dire che un operaio del tal paese è morto all’estero e la ribellione avviene solo nell’ambito della famiglia interessata; spesso l’opinione pubblica non lo viene nemmeno a sapere e anche quando ne ha notizia l’accetta come una «fatalità» derivata dalla condizione stessa dell’emigrazione; dalla fortuna o dalla sfortuna personale di trovarsi nel momento della disgrazia in un posto della galleria invece che in un altro.

Poche volte si va al di là di questo semplice ragionamento anche perché la condizione dell’emigrante poggia sulla leggenda-simbolo del bravo e operoso lavoratore che rende alla patria ed è il benemerito di una vasta schiera che all’estero contribuisce al progresso della civiltà.

Commozione tardiva

Agli emigranti che tornano si preparano d’inverno festose accoglienze, con messe, banchetti e discorsi, dove i deputati democristiani hanno modo di commuoversi per i sacrifici degli emigranti, sperando nei voti futuri. Ultimamente è nata perfino un’Associazione degli emigranti, che ha per fondatori tutte le organizzazioni cattoliche e paragovernative della città, unite allo scopo di «sollevare» le condizioni di questi lavoratori attraverso comitati all’estero e in Italia, affinché l’emigrante «viva nel proprio ambiente» e non senta con troppa nostalgia la lontananza del paese e della patria.

Tra tutte le clausole inserite nello statuto di questa associazione non ce n’è una che abbia l’unico significato importante e umano per gli emigranti e cioè quello di farsi promotrici di una battaglia concreta affinché i lavoratori trovino, in quella patria sempre indicata con la iniziale maiuscola, il necessario per vivere accanto alla famiglia.

Oggi dietro la bara di Angelo Casanova (la salma dell’altro bellunese perito nella sciagura del Canton Ticino, Valerio Chenet, è stata sepolta in Svizzera) pensavamo a queste cose e al veramente triste destino di questo operaio. Cacciato dalla valle del Mis dalla società elettrica che gli aveva espropriato la terra e la casa per poter costruire un lago artificiale, Angelo Casanova ha finiti col morire all’estero, nel cantiere di un’altra società elettrica, quasi che il suo destino di uomo fosse quello di servire, fino alla morte, le grandi società che nel mondo capitalista agiscono da padrone di tutto e di tutti.

Ancora una volta le autorità «ufficiali» diranno di lui, come hanno detto di tanti, che il suo sacrificio è stato utile al progresso. Come quello di Valerio Chenet che ha speso tutta la sua vita a fare l’emigrante. La realtà dell’emigrante verrà ancora una volta camuffata dal pietismo. E gli emigranti continueranno a morire soffocati nelle gallerie mentre le autorità italiane piangeranno la loro sorte senza peraltro adoperarsi sul serio, fino in fondo, per cambiarla.

Tina Merlin