Sulla pelle viva di Tina Merlin
Il libro, che ha ispirato lo spettacolo teatrale di Marco Paolini, “Vajont 9 ottobre 1963. Orazione civile” che ha avuto tra l’altro il merito di aver fatto conoscere al pubblico televisivo e dei media la vicenda del Vajont, prende le mosse dal 1956, anno in cui nella storia tribolata dei paesi di Erto e Casso entra la diga. Voluta dalla SADE, società privata per la produzione e l’erogazione dell’energia elettrica, come serbatoio che alimenterà la nascente industria metallurgica di Porto Marghera (Venezia), l’enorme manufatto alto 261 metri per una portata di 150 milioni di metri cubi d’acqua viene costruito in una zona geologicamente pericolosa. Nonostante le perizie lo confermino e segni premonitori segnalino sommovimenti del terreno, l’opera viene completata nell’autunno del 1959. Da allora fino al 9 ottobre 1963 i timori crescono e trovano eco negli articoli di Tina Merlin. Le sue denunce a nulla servono: la parola di una giornalista, per giunta comunista, non può che essere falsa e tendenziosa. Di più: conservatrice rispetto al modello di sviluppo che l’Italia adotta in quegli anni e che avrebbe portato senza dubbio posti di lavoro e benessere per tutti. Ostinatamente i tecnici vanno avanti. Invasi e svasi provocano scosse sempre più frequenti. C’è chi vede gli alberi camminare, ma qualsiasi allarme non ferma i 22 esperimenti compiuti. Nemmeno la simulazione fatta a Nove nell’estate del 1962 che lascia capire la portata della tragedia umana se la montagna dovesse franare. La decisione di nazionalizzare l’industria elettrica accelera i tempi di consegna dell’opera in perfetto funzionamento. Si comincia l’invaso, via via accompagnato da cedimenti e fessurazioni della roccia, che arriverà a 710 metri. Il 7 ottobre la preoccupazione prende tecnici, progettisti, operai di sorveglianza e amministratori locali. Si decide per lo svaso prima dell’irreparabile. Invece a mano a mano che si abbassa il livello dell’acqua, la montagna, non più trattenuta dalla forza dell’acqua, comincia a scivolare lungo un piano inclinato. La sera del 9 ottobre 250 milioni di metri cubi di roccia precipiteranno nel lago sollevando un’onda di 100 metri di altezza che si riverserà in parte sui paesi di Erto, Casso, sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Prada, Liron ,Col della Ruava, Forcai ,Valdapont e soprattutto su Longarone. Il giorno dopo, di fronte al mare di fango, giornalisti come Indro Montanelli e Dino Buzzatti grideranno alla rivolta della natura, alla perfezione dell’opera tecnicamente ineccepibile, tacciando come sciacalli tutti coloro che osano parlare di responsabilità dell’uomo. 2000 morti sarà il costo del cosiddetto “progresso”.
Cierre Edizioni
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Vajont 9 ottobre 1963 – cronaca di una catastrofe di Bepi Zanfron
Le sue fotografie, il giorno dopo, fecero il giro del mondo. Anche perché era corrispondente dell’Associated Press per il Nord Italia. Ma solo molti anni dopo le tirò fuori dall’archivio e le consegnò a un editore. C’è da ritenere che a frenarlo, nell’immediato, sia stata la partecipazione al dolore, la condivisione della sofferenza, il senso di pietà. Professionista di razza, Bepi Zanfron scattò fotografie crude ma nello stesso tempo discrete, partecipi e commosse dentro l’orrore di un mondo distrutto.
Il primo volume uscì nel 1973, in occasione del decimo anniversario della tragedia del Vajont. Fu poi ristampato negli anni successivi, in nuove edizioni aggiornate. E’ stato detto che Zanfron è la “memoria fotografica” del Vajont. Della tragedia, certo: la spianata dove prima c’era un paese, i soccorsi nel buio, i morti, e nei giorni successivi la frana da un elicottero in volo, le file di soldati a scavare nelle macerie, il cimitero di Fortogna. Ma Zanfron è anche la memoria del prima e del dopo. Perché Zanfron era stato sul Vajont spesso, prima del disastro, per documentare i lavori di costruzione della diga, le frane premonitrici, ma anche la vita quotidiana di Longarone “prima”, con le sue feste, i suoi eventi sportivi, le attività sociali e politiche di una comunità che, anno dopo anno, andava verso un massacro annunciato. C’è anche una bella foto (scatto, per una volta, affidato a qualcun altro) che lo ritrae sulle pendici del Toc insieme a Tina Merlin, la giornalista dell’Unità che da anni, inascoltata, denunciava il pericolo. E “dopo” fotografò anche le manifestazioni di protesta, le cerimonie pubbliche, le tappe della ricostruzione.
Non sono dunque solo immagini utili alla documentazione archivistica. Documentano la vita (e purtroppo, poi, la morte) di una intera comunità. Con grande partecipazione umana e capacità professionale. Alle sue fotografie hanno attinto certamente anche altri autori, come Marco Paolini e Renzo Martinelli, quando hanno iniziato a lavorare alle loro opere teatrali e cinematografiche.
Il primo fotografo ad arrivare a Longarone, la notte della tragedia, fu Giuseppe Zanfron, “Bepi” per tutti. Altri arrivarono alcune ore dopo, verso l’alba. Ma Zanfron, che era all’epoca il fotoreporter della redazione bellunese del Gazzettino, fu il primo a scattare le immagini del disastro in quelle ore nelle quali ancora non era chiara l’enormità di quanto era accaduto. Ore in cui i superstiti si aggiravano sgomenti e inebetiti tra le macerie e il fango. In cui i primi soccorritori cercavano nella notte ancora senza luna i pochi feriti. In cui venivano estratti i primi sopravvissuti: una donna imprigionata nel fango, un paio di bambini sepolti dalle macerie…
Agenzia Fotografica Zanfron
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Vajont senza fine di Mario Passi
Un inviato racconta la tragedia annunciata e i retroscena del processo dell’Aquila.
Ci voleva, in questo clima di revisionismo storico sul Vajont, un libro che rimettesse i puntini sulle «i». Che ricordasse che cosa fu davvero quella tragedia, perché avvenne, chi la provocò. Che rifacesse la storia di quel viluppo inestricabile di affari, arroganza, prepotenza, collusione, omertà, pavidità. «Vajont senza fine» di Mario Passi è tutto questo. Ed è altro. E’ la penna del testimone che seguì con passione e grande rigore professionale le vicende del dopo Vajont, l’istruttoria del giudice Mario Fabbri che quel viluppo riuscì con tenacia, per spirito di giustizia, a districare contro tutto e tutti, il processo dell’Aquila, il vergognoso mercato dei «diritti» del Vajont, la cupa e silenziosa disperazione dei superstiti, la miseria morale e politica dell’Italia dell’epoca. Che è ancora, per troppi aspetti, la miseria dell’Italia di oggi.
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Vajont: genocidio di poveri di Sandro Canestrini
<<… di fronte a una tradizione nazionale che tende sempre a far dimenticare, ricordare la tragedia del 9 ottobre 1963 perde ogni possibile definizione di mesto anniversario, per assumere fortemente quella rivoluzionaria.
Anche la ristampa degli atti di allora è tutta un grido: non dimenticheremo MAI.
Di quella memoria l’arringa di Sandro Canestrini è una delle pagine più belle. Essa non solo dice che cosa è il potere quando non è dato all’intelligenza e all’amore per il mondo, ma insegna la forza, la nobiltà d’animo di disertarlo. Insegna l’indignazione contro l’ingiustizia e la violenza, segno di buona salute prima ancora che di necessità democratica Insegna a non disperare,che verità e giustizia sono destinate a trionfare.
Cierre Edizioni
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Vajont di Giorgio Tosi
Nell’ottobre 1963 una frana, precipitando nell’invaso costruito dalla SADE, provoca un’onda che sorvola la diga, la diga più alta del mondo, e piomba su Longarone e i paesi vicini: 50 milioni di metri cubi di roccia e l’onda alta 200 metri spazzano via la valle uccidendo 1910 persone.
Il libro racconta la tragedia che avrebbe potuto essere evitata se i preposti al bacino non avessero perseguito il profitto ad ogni costo, chiudendo gli occhi di fronte al pericolo che sovrastava la valle del Piave a nord di Belluno. Il libro rievoca il dramma, i processi e le sentenze attraverso le arringhe di un avvocato che ha rappresentato, insieme ad altri avvocati, i superstiti del Vajont per ottenere giustizia e il risarcimento dei danni.
Cleup
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Il grande Vajont di Maurizio Reberschak
Vajont: 9 ottobre 1963, ore 22.39.
Una società elettrica: la Società elettrica di elettricità.
Una diga alta 261,60m, il “Grande Vajont” appunto.
Un bacino capace di 150.000.000 di m3.
Una montagna, il monte Toc.
Ripetutamente lancia segnali di non volerne sapere.
Continui segni premonitori. Studi che evidenziano il pericolo. Ma il profitto viene prima di tutto. Si va avanti. Fino al collasso. Una frana 266 milioni di m3 precipita nell’invaso. Colma l’invaso. Espelle l’acqua. Si solleva in’onda di 50 milioni di m3. Colpisce i paesi nella valle. Scavalca la diga. Si incune
nella gola. Si schianta su Longarone. Distrugge case e luoghi. Spariscono comunità sociali. 1910 morti tra Erto e Casso, Longarone, Castellavazzo, e altri posti.
Cierre Edizioni
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I corvi di Erto e Casso di Armando Gervasoni
Esce postumo a 50 anni di distanza dal disastro del Vajont “I corvi di Erto e Casso” di Armando Gervasoni (Gabrielli editori, Verona), romanzo scritto prima di quel terribile 9 ottobre 1963 e recuperato dagli eredi dai cassetti nei quali era rimasto per così tanto tempo. Il libro, curato dallo scrittore Stefano Ferrio, era rimasto inedito, anche se ne rimaneva traccia in alcune citazioni contenute in un altro libro, “Le ombre di Erto e Casso” (Giordano editore, Milano) pubblicato nel 1967. Il ritardo è comprensibile: dopo l’orrore della tragedia del 1963 non era certo pensabile pubblicare un romanzo sul Vajont, si trattava semmai di scriverne l’allucinante storia con i registri della ricostruzione storica, dell’inchiesta giornalistica, della relazione tecnica, del pamphlet politico, dell’arringa giudiziaria.
Gervasoni, giornalista e scrittore di pregio, non si era del resto sottratto a questo compito di ricerca e testimonianza. Lo aveva fatto non solo con “Le ombre di Erto e Casso”, che racconta l’amara verità del dopo-Vajont ritornando a Longarone e ad Erto, ma anche con “Il Vajont e le responsabilità dei manager” (Bramante editore, Milano), anch’esso uscito postumo nel 1969 con una prefazione di Mario Fabbri, il giudice istruttore dell’inchiesta sul Vajont. Armando Gervasoni era morto in un incidente stradale avvenuto nel 1968, quindici giorni prima dell’udienza al processo dell’Aquila nella quale avrebbe dovuto testimoniare.
Giornalista del Gazzettino, Gervasoni aveva seguito le fasi finali della costruzione della diga e la “corsa al collaudo”, registrando ciò che accadeva, gli allarmi, le preoccupazioni della popolazione, le denunce. Non riuscì tuttavia a scriverne sul suo giornale. Poco tempo prima del disastro venne infine trasferito a Rovigo. Si sentì sempre in colpa per non essere riuscito a penetrare quel muro di omertà e disinformazione che faceva barriera alla verità.
In “I corvi di Erto e Casso”, Gervasoni descrive bene, spesso con toni amari, anche il clima dell’epoca, l’ambiente di Longarone e quello di Erto, i gelatieri zoldani di ritorno dalla Germania con le tasche piene di soldi, le aspettative di sviluppo legate alla diga, le ansie degli ertani espropriati della loro terra e delle loro case, le preoccupazioni dei tecnici della Sade, il cupo avanzare di una tragedia incombente. Spesso l’autore compare dietro le figure dei personaggi del romanzo, soprattutto dell’ingegner Panfilo Recher, il protagonista, e del giornalista (“Un soggetto stranissimo, scrive articoli contro tutti”, ma non contro la Sade; “non durerà molto, questo è sicuro”).
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Le montagne della patria di Marco Armiero
Nonostante la montagna in Italia goda di una centralità geografica (con il 35 per cento del territorio a cui somma il 42 della collina), essa è rimasta marginale nella storia e nella memoria del paese. Eppure, a partire dall’unificazione del 1861, i regimi statali hanno nazionalizzato le montagne “ridefinendo i confini tra selvatico e addomesticato, razionale e irrazionale, bello e brutto” e ne hanno fatto non solo una risorsa, ma anche un simbolo delle conquiste del nostro Paese. Dai campi di battaglia della Prima guerra mondiale alla contraddittoria politica di rimboschimento del regima fascista, compresa tra repressione e celebrazione dei montanari; dalle proteste dei No TAV in Val di Susa alla modernizzazione idroelettrica che, cinquant’anni fa, portò alla “strage annunciate” del Vajont: il libro ci restituisce – con la prosa di un romanzo – una storia di appropriazione e resistenza, di modernizzazione e marginalità, troppo spesso cancellata dalle narrazioni ufficiali.
Einaudi