tratto dall’autobiografia
LA CASA SULLA MARTENIGA
di Tina Merlin
(…)
Un giorno, un nuovo contingente di SS arrivò improvvisamente: ormai non si annunciavano neppure. La missione americana non fece in tempo a scappare, si rifugiò in cantina con la radio trasmittente. I partigiani prelevarono la missione dopo qualche notte, uscendo dalla villa per i sentieri di un bosco che portava al torrente Ardo e poi si perdeva sulle colline. I tedeschi non s’accorsero di nulla. La mattina dopo il comando di Battaglione mi mandò alla villa.
– Prendi un sacco di juta – mi disse Bill – e porta questo biglietto alla contessa. Ti metterà nel sacco una cosa pesante. Quando sei oltre la curva del viale nascondi il fagotto nel tombino vicino alla torre; lo ricuperiamo noi. Poi torna subito qui.
Non chiesi cosa dovessi portar fuori, nel sacco. Come il solito non chiesi nulla. Era meglio non sapere. Misi il biglietto in petto e andai, col sacco sotto il braccio. Per terra la neve ghiacciata scricchiolava facendo un rumore d’inferno. “Quando imbocco il viale i gendarmi escono dalla villa, con le loro placche metalliche sul petto, e non mi lasceranno passare”, pensavo. Avevo pronta la scusa per il sacco: andavo dalla contessa in cerca di patate. Era una scusa plausibile: Giuliana possedeva le maggiori proprietà agricole del paese. Infatti i tedeschi, che stavano sempre incollati alle finestre, mi videro arrivare e uscirono in tre o quattro. In giardino, uno mi fermò. A gesti, pronunciando spesso “cartofhen” – una parola che mio padre aveva portato in famiglia dall’emigrazione – e indicando il sacco sottobraccio, gli feci capire dove andavo e perché. – Ja, ja – disse, rigido, il tedesco. Mi lasciò passare.
Quando Giuliana lesse il biglietto si mise le mani nei capelli. – Basta – ripeteva agitatissima, andando avanti e indietro per la stanza. – Adesso basta. Quelli sono incoscienti… Ma cosa vogliono ancora da me? Che m’impicchino con i miei figli?
Mi prese malamente il sacco e scomparve. Ritornò dopo dieci minuti, riconsegnandomi il sacco che pesava alquanto. Mi trascinò accanto alla finestra e sempre agitatissima, disse: – Vedi là? – m’indicò dal primo piano i tedeschi in giardino. – Come puoi pensare di farla franca? Non lo so proprio – disse rabbiosa e nello stesso tempo sconsolata. – Comunque, se ti va bene riferisci a chi ti manda ch’io non collaboro più, non faccio più nulla, non ne posso più… Se invece ti prendono sarà la tua fine, la mia e quella dei miei figli.
Mi ficcò in petto un nuovo biglietto e m’aperse la porta.
Fui sbigottita della reazione della “contessa”. Pensai, andandomene per le scale, che non valeva poi granché se si lasciava prendere dal panico per così poco. In giardino, passai proprio davanti al gendarme che mi aveva fermato all’entrata. Mi sogguardò un momento, senza dirmi nulla. Lo sorpassai, notando il suo mitra a tracolla. Imboccai il lungo viale in discesa, imponendomi d’andar piano. Avevo improvvisamente le gambe pesanti, mi sembrava di camminare come al rallentatore, mentre la curva della torre non s’avvicinava mai. A ogni passo m’aspettavo una scarica sulla schiena, tanto m’aveva contagiata l’agitazione della Giuliana. Quando finalmente arrivai al tombino, dissi fra me, sorridendo: “Quel macaco ha creduto alle patate”.
I compagni m’accolsero con grande sollievo. Anzi, con gioia. Mio fratello mi guardò con affetto.
– Adesso si può sapere cosa ho portato in quel sacco? – chiesi. Per la prima volta volevo sapere, anche per capire Giuliana.
Moschito cercò con lo sguardo il consenso di Bill e disse: – È stata brava, non ti sembra? Per una volta possiamo dirglielo.
Si volse verso di me: – Hai portato fuori dalla villa, sotto il naso delle SS, una radio trasmittente.
Le gambe mi tremarono e dovetti sedermi. Giuliana non aveva avuto poi tutti i torti d’essersi arrabbiata.
(…)
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La casa sulla Marteniga è un libro sulla memoria e insieme un libro percorso da una continua tensione verso il futuro. Nelle sue pagine, la contemporaneità della Tina Merlin narrante, allora giornalista ormai affermata e donna emancipata, non è il consueto punto di osservazione da cui ci si consola guardando al passato, ma l’occasione per riconoscere a quel passato tutta l’importanza che esso ha avuto nel dipanarsi della storia della propria famiglia, fra lutti e riscatti.
È un libro di donne, una madre anziana e stanca e una figlia sposata e madre a sua volta, finalmente confidenti dopo molti anni in cui la vita durissima, i dolori e le morti le avevano costrette a vivere e a resistere ognuna accanto all’altra, con sentimenti, pesi e reazioni diverse, a volte persino conflittuali. Un colloquio intenso, fra cronaca e diario, che nasce per frammenti, ricordi, piccoli fatti improvvisamente raccontati dalla figlia alla madre, dopo averli tenuti gelosamente segreti per decenni e averli caricati dei significati della rivolta, dell’indipendenza, della poesia come spesso accade agli adolescenti e ai giovani.
“Nasce, così un rapporto di complicità che avrei voluto vivere da sempre con mia madre”, in queste parole di Tina c’è la nostalgia per gli affetti e le dolcezze negate, per le speranze, che l’asprezza dell’esistenza aveva impedito di evolvere pienamente in un sentimento di affidamento reciproco e di mutuo sostegno nelle avversità, di condivisione consapevole dei rischi per liberarsi dalla guerra e degli entusiasmi accesi per costruire il mondo nuovo immaginato.
È un libro della consapevolezza, non solo intimistica e dunque letteraria, per una giovane donna che vive il mondo contadino della valle del Piave e che annota i tratti distintivi del contesto con una partecipazione ancestrale che infine chiarisce la sua stessa natura femminile perfettamente aderente a quell’universo duro nelle prove quotidiane e netto nei contrasti.
In quella casa modesta, sul prato, fra “l’immensa nuvola splendente” degli alberi da frutta, nel risuonare metallico di certe sere diacce fra le povere case di S. Tecla, di fronte allo sferragliare improvviso della Marteniga che spazza i coltivi cancellando la traccia di ogni sudore, Tina Merlin impara ad osservare, educa il proprio sguardo a non scivolare sulle cose e sulle persone, a non fermarsi all’apparenza per quanto fantastico possa sembrare a una bambina o a una ragazza quel vivere semiselvatico a contatto con la vita.
Nel libro, ci sono ritratti come quello di Bepi Savaris, il calzolaio zoppo.., di Don Alfonso il parroco di Trichiana …, di Bepi Moka, mendicante che abitava verso la montagna, della jeja Dosolina …che raccontano con le parole di oggi un paesaggio di ieri assai più che le singole persone, perché dai caratteri di questi personaggi, dalle loro inclinazioni, dai mestieri, dalle ire e dalle debolezze, si origina sempre il profilo di un orizzonte animato da cose e animali, che il lettore ritroverà come una traccia benefica in ogni altra parte di questo libro.
Un paesaggio che subito nell’esperienza di Tina Merlin tredicenne e reduce da un’altra precoce esperienza lavorativa fuori casa, diventa icona collocata nell’angolo più intimo dei ricordi, quello appunto che si affida solo alla consolazione della scrittura: “il prato con gli alberi carichi di frutti, l’accecante sole pomeridiano sulle canne marron bruciato del granoturco che ogni tanto scrocchiavano dal caldo, l’ombra umida del bosco lambito dalla Marteniga, l’uva che iniziava a colorirsi verso la fine d’agosto, (…)
Ogni evoluzione successiva nell’esperienza esistenziale e professionale di Tina Merlin, recherà indelebile questo tratto d’origine – la casa, il torrente, il prato, la valle, le persone, le cose e gli animali – e questa sua istintiva partecipazione all’essenza del contesto la educherà nella capacità di resistere caparbiamente alle insidie del luogo comune e del compromesso.
Queste sue radici popolari e contadine la porteranno a diventare una giornalista instancabile e polemica, una donna certo difficile, radicale nelle decisioni che riguardano lei e quelli che le stanno accanto. La sua testardaggine e l’impulso a lottare la spingeranno, all’inizio in perfetta solitudine, verso la falange del Vajont e i montanari di Erto schiacciati dall’enormità del progresso e l’esperienza agra della vita giovanile la farà diffidente quel tanto che basta per saper distinguere il luccicare inconsistente delle illusioni dalla luce anche tenue della speranza possibile.
È anch’essa, come le sassaie del Piave e la terra grama che s’addossa al primo versante della collina, essenziale, scabra, eppure carica di un magnetismo vitale che si alimenta di uno sguardo interiore che sa proteggere e raccontare.
Mentre accompagna la madre che s’appoggia al suo braccio, in uno di questi peripli del campo di casa, in cui piovono confidenze e silenzi densi come sangue, Tina annota: “È ancora un prato vivo, con l’erba verdissima. Si sente, sopra quel prato, l’occhio amoroso di qualcuno”. Nello smalto di quel prato che ricorda certi lucori vallivi di Segantini, essa riconosce il potere taumaturgico dello sguardo della madre ancora preoccupata di curarlo, concimarlo, sarchiarlo, ma soprattutto vi riconosce il suo diritto ai sogni, alla poesia, al futuro “Così porto Toni con me nella casa sulla Marteniga che è il luogo della mia memoria e dei miei sogni”.
Si torna sempre al luogo da cui si è partiti, perché il senso dell’esperienza umana può essere misurata solo sul valore che ognuno di noi da alla prima percezione che del mondo ha avuto, ai sensi che si sono allertati nello scoprire la madre, il padre, i fratelli, le cose, gli animali, i colori, insomma il primo alfabeto che ha strutturato il suono della nostra voce in parola comunicante educandola alla verità. Questo de La casa sulla Marteniga è un viaggio a ritroso verso la verità originaria che ha accolto e cresciuto Tina Merlin, i suoi muscoli, il suo sangue, le sue ostinazioni, l’intelligenza, gli amori, le rabbie e gli incanti, il tutto che c’è in ogni persona, povera o ricca che sia, ma che solo alcune, per destino speciale, riescono a dire, anzi a raccontare.
In questo caso, una verità particolarmente preziosa perché la sola che può guidarci lungo i sentieri tortuosi, a quella più nota, terribilmente straordinaria, che da Tina fu denunciata a tutto il mondo per impedire la strage del Vajont, che invece si consumò quasi senza colpevoli. Fra queste due acque, quelle amniotiche della Marteniga e quelle tragiche del Vajont, stanno storia e cronaca del terribile novecento bellunese e, intera, la vita di Tina Merlin.
Renzo Franzin