Tina Merlin è, quasi per tutti, la coraggiosa giornalista che denunciò con molti anni di anticipo la strage che si stava preparando sul Vajont e che invano cercò di impedire scrivendo forti articoli di denuncia. È diventata, nell’immaginario collettivo, la “Cassandra del Vajont”, una definizione che le si è appiccicata addosso e che lei fortissimamente odiava. Ma se si parte da qui, e qui si rinchiude il personaggio, si perde inevitabilmente la complessità della figura di Tina Merlin, e perfino si contribuisce involontariamente a non far capire la storia stessa del Vajont: perché quegli articoli scritti dalla giornalista de “l’Unità” non nascono a caso, ma scaturiscono direttamente da un impegno, professionale, civile e politico, che veniva da lontano. Ecco, questo libro, questa raccolta di articoli scelti tra le molte migliaia che Tina Merlin ha scritto nella sua attività professionale, offrono una lettura diversa del personaggio, ne fanno intravedere a tutto tondo la storia di un impegno che si dipana dai primissimi anni Cinquanta fino a tutti gli anni Ottanta. Il Vajont è solo una parte di quell’impegno di vita, certo importante, che lasciò una profonda cicatrice sulla “pelle viva” mai rimarginata davvero, ma, appunto, è solo una parte. Non si capiscono gli articoli sul Vajont se non si parte da qui. Tina Merlin inizia a scrivere per l’Unità, come corrispondente da Belluno, negli stessi anni in cui vengono costruiti ed entrano in esercizio i grandi bacini idroelettrici del sistema Piave, dei quali il Vajont è la successiva chiave di volta. Su ciascuno di essi Tina Merlin si era trovata a dover scrivere articoli di cronaca: da Arsiè a Domegge di Cadore, da Forno di Zoldo a Erto la Sade, e con essa altre imprese idroelettriche, distruggeva il territorio, provocava frane e lutti, rapinava i contadini delle loro poche fonti di sussistenza obbligandoli così all’emigrazione, e tutto ciò lo faceva con la prepotenza, violando le leggi che pure c’erano, mandando i carabinieri a far sloggiare i montanari dalle loro case, imponendo indennizzi di poche lire ed evitando di pagare alle comunità quel poco che comunque era loro dovuto. Scrive, Tina Merlin negli anni Cinquanta, del Piave ridotto a ruscello, della rapina dell’acqua, dell’ambiente massacrato, della montagna abbandonata, del dissesto idrogeologico. Scrive della mancanza di servizi, di strade, di scuole. E scrive delle alluvioni che si ripetono, e lo farà, lanciando ancora una volta inascoltati allarmi, fino a pochi giorni prima della disastrosa alluvione del novembre 1966. Pare, per certi aspetti, di leggere cronache dell’oggi, perché molti di quei problemi che sono ancora di assoluta attualità. Il suo è uno stile diretto, immediato, che va subito al cuore dei problemi. E lo fa senza ideologismi, dà invece la parola alla gente, alla “sua” gente, contadini come erano i suoi genitori, con la quale entrava subito in comunicazione, che non aveva voce e alla quale dava voce. C’è, in quelle righe, una “compassione” di fondo, cioè un “sentire insieme”, un immediato immedesimarsi nelle vicende, perché lei era, e così veniva riconosciuta, una di loro. Sono cronache dal basso, non cronache dal palazzo: gente che si costruisce la strada da sola, perché il Comune non lo vuole fare, gente obbligata a scendere in “lioda” d’inverno, vedove bianche, funerali di emigranti morti in miniera, famiglie rimaste senza casa per un incendio… E ogni volta lei è lì, con loro, va sul posto, scende in slitta sfiorando precipizi, denuncia le ingiustizie, racconta le storie tragiche dell’emigrazione. Sono, quegli articoli, un esempio di buon giornalismo, in un’epoca in cui sui giornali trovavano spazio solo le ragioni della Sade e l’ossequio ai potenti. E poi c’è lo stile, non privo di ironia, le pagine di fuoco contro i vari Montanelli che chiamavano “sciacalli” i partigiani emiliani venuti in aiuto nei giorni della tragedia del Vajont, delle popolazioni della zona che li avevano ospitati e sostenuti durante la Resistenza.
Toni Sirena