Gli otto “racconti partigiani” raccolti sotto il titolo di Menica comparvero per la prima volta tutti assieme nel 1957. Alcuni, “Menica” col titolo di “Menina” ad esempio, erano già stati ospitati sulle pagine delle donne del quotidiano “l’Unità”. Scrivendone all’amico Ricci del “Contemporaneo”, Tina Merlin così commentava: “Non è un gran che. Forse non si possono definire nemmeno racconti, forse si devono chiamare bozzetti di vita partigiana. E lo stile è più giornalistico che letterario e forse neanche uno dei due. I fatti narrati anche se hanno preso lo spunto da cose veramente accadute nella mia provincia e, in parte vissute da me stessa, rispecchiano solo alcuni aspetti di vita quotidiana, che non sono i più tragici o i più gloriosi. Il motivo è che ho voluto io parlare di piccole cose, apposta, perché tante di quelle piccole cose hanno fatto la grande cosa: la Resistenza. E ho voluto parlare delle donne, perché da lì noi siamo partite, con coscienza, per camminare avanti. Saranno bozzetti i miei, ma i partigiani e le donne della mia provincia che hanno vissuto quelle piccole cose, assieme alle grandi, hanno letto il libro con gusto, con compiacimento, rivivendo quel pericolo. Anche se il libro ha molti limiti e difetti (e sono la prima a dirlo) io penso che abbia servito a qualcosa. Sopratutto per la mia provincia, dove i “santoni” che potevano fare qualcosa, hanno sempre parlato tanto ma non hanno mai fatto niente. Perciò ci vado fiera del mio modesto lavoro (anche perché ho fatto solo la quarta elementare). Lo so che non si dovrebbe dirlo, perché è passato di moda e per non fare della falsa modestia, ma io lo dico lo stesso.”
Eravamo, si è detto, nel 1957. La stagione feconda del Neorealismo volgeva ormai al termine, ma nel suo trapassare chiedeva alla letteratura una forma di impegno che salvasse la letteratura stessa, e la sua capacità di incidere sul reale, in quanto, per dirla con Sartre, “morale e problematica”. Tina Merlin fu dunque mossa dalla volontà di “riscoprire” i perché e i come di un agire collettivo, allorché dette corpo a fatti e uomini “minori” della Resistenza, tuttavia, a dispetto anche di un linguaggio asciutto, propenso più a scuotere che a commuovere, non disdegnò di far trapelare una certa qual vena malinconica, tratto sì caratteriale, ma anche cifra con cui guardava non alla Resistenza, ma al dopo. Quasi a dire, eravamo nei dintorni del ‘56, che anche la Resistenza come tutte le porte che si aprono, poteva tornare a chiudersi. Occorreva allora mettere un piede sulla soglia e ritrovare nello ieri il senso dell’agire nell’oggi. E ciò che più lo offriva, questo senso, non erano le azioni “eroiche” dei partigiani, oramai trasfigurate dalla “memoria nazionale” (per inciso, il libro non piacque all’ANPI di Roma), ma il dato intimo, esistenziale, non perciò meno politico, di donne e uomini, vecchi e giovani che proprio la guerra aveva chiamato ad essere autenticamente uomini. Ognuno per la propria parte. Così facendo, alla volontà di edificare il lettore si mescolavano intenzioni apologetiche, ossia si sottraeva il fatto resistenziale, nel bene e nel male, alle metamorfosi della leggenda. Il sangue versato era davvero sangue, i corpi martoriati fatti di carne e ossa e palpabili le paure, vere le sofferenze; persino i sogni avevano una loro concretezza, piegati com’erano al quotidiano. E si trattava altresì di dar conto di una violenza che nelle vallate bellunesi si era riversata più che altrove, così da marchiare a fuoco le carni e le memorie della gente spesso lontane da quella pubblica. Ecco allora che le storie dei paesi e delle comunità occupate dai tedeschi segnavano una distonia rispetto a una storia della resistenza fatta da pochi, e armata. Qui erano state collettività intere a farsi avanti, e soprattutto le donne. Erano state loro, a volte in gruppo, per lo più in totale solitudine, quasi sempre inermi, che avevano tenuto insieme famiglia e comunità. Anche a costo di mediazioni altissime. Erano state loro, con gli strumenti che possedevano, nei modi che sapevano, in quelli che di colpo rinvennero, che avevano sottratto soldati sbandati e partigiani, fossero essi famigliari, paesani, finanche forestieri, alla violenza cieca dei nazisti. Questa memoria doveva radicare e crescere nella coscienza dei lettori, e in primis degli stessi protagonisti di allora, alla fine così intimi, al di là dei destini individuali, alle figure dei racconti, da riconoscersi nuovamente in esse. Ed era questo altresì un invito a restare fedeli alla propria terra, consapevole, la Merlin, che ogni riscatto non è una liberazione dal “loco”, ma un vivere liberamente laddove sappiamo riconoscere i segni della natura e della storia, tracce per noi, da spostare costantemente in avanti. Su tutto ciò Tina aveva avuto modo di riflettere grazie ad uno scambio di vedute con un collega dell’ “Unità” che in una lettera datata 4 novembre 1954 le aveva scritto: “Dal 1945 ad oggi abbiamo letto centinaia di racconti, novelle, diari, ecc. che volendo tenere un tono realistico (anzi neorealistico) cadono invece quasi tutti nel verismo o nel naturalismo. Personalmente non comprendo la necessità che per essere “realisti” si debba narrare la verità. C’è lì in agguato la cronaca che impoverisce ogni cosa, ogni sforzo creativo anche il più meditato e sincero. La verità, cioè i fatti, dovrebbero ispirarci ma non mai dominarci; soprattutto non dovrebbero mettere ceppi e pastoie alla nostra fantasia. Anziché costruire tipi e fare esplodere sentimenti e passioni, la vena realistica di maniera (quella cioè sbagliata) ci dà ancora oggi, troppe volte, la genericità del clichèt o della maschera”. Se aveva accolto le considerazioni sul “realismo”, tanto da non nominare luoghi e persone, Tina Merlin si era però rifiutata di costruire tipi, o meglio li aveva rinvenuti tra la sua gente bell’e fatti, come i sentimenti e le passioni. Dentro un paesaggio amico, anche se aspro, a volte. E una natura benigna, anche se assai spesso refrattaria alla vanga. Si trattava soltanto di dar loro voce in nome di un neo-umanesimo, più che di una politica culturale, per il quale la Resistenza era un inizio. Perciò si trattava, scrivendo, di ritornare a quell’inizio e rifondarlo contro la smemoratezza, l’acquiescenza o la degenerazione.
Va da sé, a questo punto, che l’unico rapporto che la Merlin poteva intrattenere con la scrittura, a suggello del suo “impegno”, era un “rapporto di responsabilità”, laddove la sofferenza per ciò che era stato, ella testimone e protagonista, e l’accessibilità della parola consegnata si fondevano felicemente in una lingua semplicissima, come semplice era la gente delle vallate bellunesi, la sua gente, nel vivere come nel morire.
Adriana Lotto