Donne

Conferenza di Tina Merlin a Vicenza per il 30° anniversario della Resistenza.

Il ciclo di conferenze sulla Resistenza, promosso dal Comune e dal locale Comitato unitario antifascista, credo vada visto oggi, prima di tutto, come necessità di rivedere, con spirito critico, la nostra recente storia passata, senza tatticismi o settarismi politici, per ricavare da questa “rivisitazione” elementi, che illuminino, anche il nostro modo di essere, di lottare, di costruire democrazia nel futuro.
Vorrei proprio partire dalla democrazia, perché sono del tutto convinta, che è sul significato di questa parola che dobbiamo soffermarci, quando ci richiamiamo alla Resistenza, poiché la democrazia fu la spinta , la volontà, la speranza fondamentale della Resistenza e della sua unità. E fu, per le donne che parteciparono a quella lotta, la bandiera impugnata con grande slancio e convinzione, fu l’arma più valida, che aperse la strada all’impegno delle masse popolari femminili nella storia del paese, al loro diritto al riscatto dalla subordinazione secolare, a un modo costruito e gestito dagli uomini, modellato non su misura dell’uomo in sé, ma di interessi economici ben definiti, che non solo discriminavano le donne, ma gli stessi uomini, all’interno di una organizzazione sociale che serviva uno sviluppo capitalistico, e non socializzante, non collettivo del paese.
Perché la democrazia rappresentò insieme forza e speranza della Resistenza? Possiamo dimostrarlo? Non voglio fare la storia del fascismo e della negazione della democrazia che esso rappresentò, per gli uomini e per le donne. Non mi riferisco solo al fatto che le donne, allora, non avevano il diritto di voto – anche questo, comunque, elemento importante della democrazia e conquista importante della loro partecipazione alla Resistenza – ma al fatto che uomini e donne, sotto il fascismo, non potevano di fatto esercitare la democrazia, in quanto tutto veniva imposto dall’alto, senza discussione alcuna, né partecipazione, tutte le organizzazioni popolari operaie erano state soppresse e perfino i reggitori dei Comuni – i podestà – venivano imposti dal Prefetto.
Ma all’interno di questo sistema cos’era la donna? Nei confronti del personaggio-donna era stata creata –lo sappiamo- tutta una mistica femminile, ( che in parte resiste ancora oggi), per “consolarla” di ciò che le veniva negato, della sua subordinazione, fatta passare come valore fondamentale per lei, per  la famiglia, per la società: era l’angelo del focolare, la procreatrice ed educatrice dei figli (infatti veniva premiata dal duce se partoriva tante volte), il perno della famiglia. Però anche e soprattutto veniva decantata la sua debolezza muscolare rispetto all’uomo (per cui non poteva fare i lavori  del maschio, anche se imbestialiva in lavori altrettanto pesanti); la sua “naturale” inferiorità  intellettuale, dimostrata col paragone che poche emergevano nelle professioni più alte e rappresentavano eccezioni (ma non si diceva, nel contempo, che alla donna erano sempre stati negati la scuola e gli studi degli uomini).
Queste falsità sulla donna, servivano in realtà non solo contro di lei, ma per mantenere tutta la società subordinata a certe regole economiche del capitalismo, del suo profitto, del suo sfruttamento, della sua divisione e discriminazione di classe, entro cui le donne erano e sono ancora due volte discriminate, una volta come lavoratrici e una seconda volta come donne.
Era questo il quadro socio-politico che l’Italia presentava l’8 settembre 1943, per ancorare a una data precisa -l’inizio della Resistenza- il fenomeno del primo risveglio di massa, delle coscienze femminili che aveva avuto, comunque, sintomi interessanti, a partire del dopoguerra 15-18, in singole figure di donne, in categorie, che isolatamente, avevano condotto da allora – fino a tutto il periodo fascista- lotte anche memorabili: basti pensare alle braccianti e alle mondine di certe regioni italiane, alle stesse tessili della vostra provincia, o a singole figure femminili, non abbastanza conosciute nemmeno alle donna, che operarono in esilio, che possedevano grandi  ideali di emancipazione dei popoli, come la friulana Tina Modotti per citarne una a noi vicina, combattente nelle Brigate Internazionali di Spagna, e che mori’ in esilio al  Messico.
L’8 settembre, il popolo si mise a fare volontariamente una propria guerra, che univa assieme, la ribellione a un regime, il senso di dignità nazionale, la volontà di giustizia, di libertà, presupposti tutti di una effettiva democrazia. Fu un grande movimento di massa, che metteva in discussione vecchi equilibri sociali, che faceva emergere nuove classi a protagoniste della storia, che impresse, proprio per questo, il senso collettivo alla storia. Si diede il via, allora, a quel processo poi interrotto dopo la liberazione, e ripreso solo nel 1968, che l’attuale Presidente della Camera Ingrao definisce spesso “la socializzazione della politica”, per le forze sociali appunto che la Resistenza aveva messo in campo. In questo ampio processo di rinnovamento dello Stato, che portava con se nuovi valori, le donne si imposero alla pari con gli uomini, anche quando nella Resistenza non ebbero in mano un fucile, non spararono – ma tante lo fecero (in Emilia ci fu perfino una donna che comandò un reparto di uomini armati), ed ebbero invece compiti che non furono meno primari e pericolosi: il sabotaggio dentro le fabbriche, tenere e mantenere i collegamenti, i rifornimenti, le informazioni, gestire gli ospedali da campo, i rapporti con le famiglie dei partigiani fare, insomma, quello che nel gergo di allora si chiamò la staffetta e che fu uno dei servizi fondamentali dell’esercito partigiano e della sua sopravvivenza. Il numero riconosciuto delle donne partigiane in Italia, tenendo conto che i riconoscimenti vennero fatti con giudizio ampiamente riduttivo sia per gli uomini che per le donne – bisognava avere di fatto partecipato a tre azioni armate – fu di 35mila combattenti, 20mila patriote, 4653 arrestate-torturate-condannate, 623 cadute e fucilate, 2750 deportate, 15 decorate di medaglie d’oro.
Accanto a questo robusto nucleo di donne combattenti, presero parte alla battaglia generale dei resistenti, con un contributo loro, di donne in quanto donne, esprimendosi autonomamente nella prima grande organizzazione femminile unitaria che prese il nome di Gruppi di Difesa della Donna, ben 70mila donne italiane (un motivo assoluto per quei tempi) di ogni ceto, di ogni condizione, di tutti gli orientamenti ideologici che si esprimevano nei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale. I Gruppi ebbero un loro giornale -Noi donne-, diretto dalle donne, che è sopravvissuto 33 anni, e che oggi è l’organo dell’Unione Donne Italiane, un’organizzazione femminile discendente dai Gruppi, e che ebbe un significato e un’importanza rilevante, in tutti questi anni, nella formazione di una coscienza d’emancipazione femminile. Non era, come spesso si è sentito dire, una partecipazione soltanto sentimentale alla Resistenza, in quanto spose, madri, sorelle dei combattenti. C’era anche questo, ma anche l’adesione a un programma preciso, nel quale stava scritto che si aderiva ai Gruppi “per la liberazione della Patria e per la propria emancipazione”.
La partecipazione delle donne alla Resistenza si svolse, quindi, entro due solchi assai significativi.
Il primo quello delle combattenti, che divisero sacrifici e pericoli con gli uomini nella trincea più avanzata della lotta, per liberare la Patria dall’invasore e dalla dittatura, per conquistare la libertà; erano valori nazionali di tutto il popolo, e in questo senso le donne si sentivano popolo, una parte importante e uguale al popolo. Il secondo solco fu quello – all’interno del movimento – delle rivendicazioni specifiche come donne, di lotta per la loro liberazione da vecchi tabù e sottomissioni.
Due solchi entrambi importanti e politicamente corretti, che postulavano entrambi, in definitiva, la conquista di una partecipazione alla vita del paese, di diritti generalizzati – come popolo e come donne – che costituivano e costituiscono ancor oggi la base reale,  profonda, della democrazia.
Questo ingresso massiccio delle donna nella politica, costituì una doppia rottura degli equilibri sociali, il cui significato, nel dopoguerra, non fu sufficientemente compreso dagli stessi partiti politici di massa – e sarebbe bene che tutti si facessero un autocritica- e ciò mortificò e rallentò il processo di emancipazione femminile che la Resistenza aveva avviato, anche con esemplare metodologia, all’interno di quel mondo nuovo, che già viveva nella lotta e che i combattenti volevano prefigurare per tutti nella società del dopoguerra.
Il periodo resistenziale è stato finora troppo oggetto di sola celebrazione patriottica o commemorativa, e troppo poco di riflessione storico-politica. Commemorare le gesta dei combattenti ha significato certamente – almeno in periodo di guerra fredda e di repressione autoritaria- collegarsi a ideali che venivano dimenticati, ma ha anche significato, per alcune forze, piangere sui morti, sul loro eroismo, per non parlare dell’eredità che i morti avevano lasciato ai vivi. Credo che sempre di più occorra sottoporre a riflessione rigorosa il periodo resistenziale, per consentirci di capire il dopo-Resistenza, il momento attuale, il perché e da dove è potuta nascere una Costituzione nuova e avanzata che stabilì concettualmente anche la piena parità della donna, e poi per capire i motivi della sua non attuazione. E’ sancito dalla storia  – ma si sa che la storia della  Resistenza è stata a proposito poco divulgata- che in  molte zone partigiane sorsero “repubbliche libere”, con propri governi che legiferavano su tutti gli argomenti interessanti le comunità locali: scuola, agricoltura, assistenza, commercio ,lavoro, perfino amministrazione della giustizia. Si iniziò con questa attività, una partecipazione popolare alla cosa pubblica; nacquero liberi ed eletti consigli comunali, assemblee pubbliche, sindacati, partiti. Le donne parteciparono subito a questa rinnovata vita politica e sociale, divenendo non solo consigliere comunali o sindacaliste, ma organizzatrici popolari e anche ministri delle Repubbliche partigiane. Nessuno metteva allora in discussione questo diritto alla parità; era un diritto conquistato naturale per tutti. La portata di questa rivoluzione nella rivoluzione è ancora tutta da studiare, soprattutto per come andarono le cose nel dopoguerra; quando all’organizzazione di base, delle brigate, dei reparti partigiani, scevra da discriminazioni, si sovrappose quella dei partiti e dei loro vertici, che anteposero sempre gli uomini alle donne nei posti di responsabilità, non solo quando vi erano capacità comuni, ma addirittura anche quando le donne possedevano capacità superiori. Ritornano alla base, ai consigli, dopo il ‘68. ed ora il ruolo nuovo che la donna assunse nella Resistenza, ebbe conseguenze anche sul piano dei rapporti fra i sessi, di grande significato culturale. Per citare un aspetto che oggi il movimento femminista nega come elemento di emancipazione –e che noi della Resistenza riteniamo invece importantissimo non solo per la nostra emancipazione, ma anche per quella degli uomini – è il rapporto e la concretizzazione di esso nella realtà, nella prassi tra gli uomini e le donne della Resistenza. Non solo per la valutazione paritaria che veniva data  dai compiti, anche se erano diversi per il valore ugualitario di essi, ma anche per il rapporto spirituale, affettivo, sessuale che allora si instaurò. Le partigiane furono certamente le prime serie femministe italiane. Poteva accadere che durante la convivenza comune in montagna- e sia pure in incontri occasionali – dove il clima di tensione ideale, di instabilità di una condizione che sentivi minacciata dalla morte- poteva accadere che due compagni fossero portati all’atto amoroso: ebbene questo era vissuto e compreso in una dimensione nuova, da eguali, uno stare insieme senza preconcetti e senza paure, vivendolo come un atto naturale della vita, dovuto alla vita, che forse poteva spegnersi per ognuno dei due da un momento all’altro. O accadeva anche il contrario: che un rapporto sentimentale sorto fra due compagni, fosse vissuto soltanto a livello spirituale, per il rispetto che il compagno nutriva verso la sua donna non ancora preparata sufficientemente all’atto sessuale, magari per la sua convinzione cattolica. Imparammo allora tante cose dell’essere donna, ma lo imparammo con gli uomini, perché con gli uomini stavamo crescendo e maturando e costruendo un modo diverso; e la libertà non era un concetto astratto, ma una realtà che vivevamo assieme e che assumeva, proprio perché eravamo di tante condizioni e appartenevamo ai due sessi, il respiro culturale più ampio della libertà e della giustizia collettiva e quindi di democrazia piena.
Lo spirito che informò la lotta unitaria della Resistenza – in tutti i suoi aspetti – si tradusse successivamente nella Costituzione, nata da un accordo tra le forze politiche resistenziali, che fu uno dei compromessi (si potrebbe oggi definire e in realtà lo era) più alti raggiunti finora nella storia italiana, tra partiti di diversa ideologia. Quella legge, anche se non fu attuata per tante sue parti, ha lasciato aperto molti spazi democratici in Italia, anche dopo la rottura antifascista del ’48, avvenuta in parte per immaturità politica dei grandi partiti, non ancora abituati a misurarsi con la politica, ma soprattutto per la divisione dell’Europa in zone d’ influenza, dove il nostro paese si trovò, suo malgrado, schierato in un’ area geografica che agli ideali, alla volontà, alle leggi democratiche, antepose gli interessi economici e politici di gruppi capitalistici, facenti capo agli Stati Uniti d’America. Iniziò in quel periodo una restaurazione del nostro paese, che impedì il cambiamento delle vecchie strutture economiche, che riportò alla ribalta la vecchia classe dirigente: i padroni, i burocrati che avevano servito il potere fascista e che, animati dallo stesso spirito, gestirono lo Stato repubblicano, provocando tutti i guasti che poi conoscemmo.
Le donne furono anch’esse ricacciate nel vecchio ruolo dell’oggetto e della sottomissione. Ci volle il 1968, le lotte operaie e studentesche, per riprendere il filo spezzato di una emancipazione appena intrapresa e subito interrotta.
Ma la nascita della donna soggetto di storia resta il periodo della Resistenza. Anche se alcuni gruppi femministi ci guardano oggi con sufficienza, qualcuno accusandoci di non aver costruito niente; qualche altro rifiutando un’ esperienza che se non ci fosse stata, le donne di oggi non potrebbero trovare terreno sociale fecondo, per nuove battaglie emancipatrici.
So che diversi, e nuovi, e certamente più coscienti sono oggi i motivi che spingono alla ribellione le donne. Non intendo sottovalutare neanche i motivi di introspezione psicologica, che individualmente pesano, anche se qualche volta rischiano di essere alibi comodi che servono a rifiutare una lotta concreta. Ma una cosa mi preme dire – poiché l’esperienza della Resistenza, e di questi trent’anni, me ne rende profondamente convinta, e non solo per quanto riguarda le donne. Battaglie di singole persone, di singole categorie, isolate e slegate dagli interessi complessivi della società in quel dato momento, da alleanze le più vaste possibile, possono servire alla sensibilizzazione pubblica, qualche volta anche a rotture salutari nelle vecchie concezioni del vivere, ma possono anche rimanere sterili e andare incontro alla sconfitta. Ci insegna ancora la Resistenza, che non avrebbe vinto se non avesse avuto dalla sua parte il popolo.
Il problema dell’emancipazione femminile, se è prima di tutto problema delle donne, e quindi della loro lotta, è comunque problema dell’intera società, ed è quindi una questione di democrazia.
La contrapposizione tra uomini e donne non può quindi avere nessun senso, né culturale, né storico.
Se non si cresce insieme, se i valori di civiltà di cui sono portatrici le donne non vengono compresi e fatti propri dall’ intero movimento operaio, dalla metà della gente del nostro paese, non si avvererà mai  nessuna emancipazione, né degli uomini, né delle donne.
E allora mi sembra che il richiamo alla Resistenza, contenga oggi tanti insegnamenti ancora validi per le donne, per gli uomini, per le forze politiche, per il futuro di questo nostro paese, che sta affrontando nuove esperienze e che forse, con l’apporto di tutti, potrà e dovrà realizzare una unità operativa, per rispondere alla domanda popolare, che fu già della Resistenza e che oggi è ancora più vasta: il lavoro, la pace, la giustizia, la democrazia. Niente è mai conquistato per sempre; tutto è sempre da difendere a da riconquistare, con la lotta a livelli più alti, in un mondo sempre più aperto alle esperienze e agli apporti di altri popoli, all’unità e alla solidarietà fra i popoli.

6 gennaio 1952 – Veneto

Come vivono le donne bellunesi

LAVORANO DEI MESI IN PROVA

SENZA RICEVERE UN SOLDO DI PAGA

Un sistema che è molto utile ai padroni della Chinaglia e che rende costante la minaccia di licenziamenti

III.

BELLUNO, gennaio. – Da due giorni attendiamo, mezzogiorno e sera, le operaie dello stabilimento Chinaglia alla loro uscita dalla fabbrica.

Ci siamo accompagnati a loro lungo lo stradone, interrogandole una ad una, con cautela, per non dare nell’occhio.

È difficile farle parlare, non perché non sappiano cosa dire, ma appunto perché avrebbero tante cose da dire.

Infatti abbiamo appreso parecchie cosette seppure con molta fatica, perché se il principale lo viene a sapere, c’è il pericolo di perdere il posto e allora dove si lavora?

Lo stabilimento Chinaglia assorbe una quarantina fra donne e ragazze e una ventina di uomini. Si fabbricano strumenti elettrici di misura e materiale per radiotecnica. È il complesso industriale più forte della città.

Le operaie e gli operai dovrebbero essere trattati secondo il contratto nazionale della FIOM, ma in effetti, allo stabilimento Chinaglia ciò non avviene.

Il contratto nazionale di categoria dice che il periodo di prova, ad esempio, non deve superare i dodici giorni di effettivo lavoro; le operaie di Chinaglia devono fare due mesi senza paga, cinque mesi col 30 per cento e cinque mesi col 60 per cento di paga prima di considerarsi effettivamente assunte. Se poi, dopo tale periodo l’industriale decide che la ragazza non va, la ragazza stessa non viene assunta e intanto il padrone intasca il frutto del suo lavoro.

Accade ogni tanto che le ragazze vengono sospese per un po’ di tempo che varia dai quindici giorni ai due mesi, per «mancanza di materie prima». Però nei mesi di lavoro devono fare ore straordinarie, che vengono loro pagate normali, e chi vuole può anche fare del lavoro a casa, la sera, che viene pagato un tanto al pezzo o all’articolo. Il padrone ci guadagna su, perché sul lavoro svolto a casa egli non paga né contingenza, né assicurazioni sociali e mutualistiche.

Abbiamo chiesto a una ragazza cosa pensava riguardo al lavoro che davano da fare a casa: «Io parlo – disse – contro il mio interesse personale, perché più si lavora più si guadagna, anche se sappiamo che il padrone ci guadagna più di noi. Ma in questi tempi così difficili, con la disoccupazione che aumenta sempre più, non è giusto adoperare questo sistema. Dovrebbero assumere, magari provvisoriamente, fino al termine della commessa di lavoro, altre ragazze che a centinaia, in questa nostra città, corrono in cerca di un qualsiasi lavoro e non lo trovano».

Un’altra ragazza ci disse: «Anche la faccenda delle ore straordinarie è una cosa che non va. Perché dobbiamo fare del lavoro straordinario ed essere pagate come se rientrasse nelle normali ore di lavoro. E poi, perché fare del lavoro straordinario quando dopo, per giorni e giorni restiamo senza lavoro? Ci sfruttano perché sanno che piuttosto di restare sempre disoccupate accettiamo le loro condizioni. So che ciò non torna a nostro onore, dovremmo essere ben più risolute ed unite e allora forse ci ascolterebbero».

Le ragazze si allontanavano in fretta.

Lo stabilimento, dipinto in giallo, restava indietro fermo e taciturno, simbolo oggi di oppressione e sfruttamento, ma domani sicuramente, simbolo di libertà e di benessere.

Tina Merlin

 

2 gennaio 1952 – Veneto

Alcuni aspetti della vita delle donne bellunesi

IN DIECI ORE DI LAVORO LE CAMERIERE DI CAFFE’

PERCORRONO OGNI GIORNO DECINE DI CHILOMETRI

BELLUNO, gennaio. – Belluno è una piccola cittadina che conta all’incirca 30 mila abitanti. Un piccolo centro quieto e monotono, con una borghesia addormentata, senza iniziativa apatica e intenta solo a copiare gli usi e i costumi dei propri simili delle grandi città.

Belluno ha una sola fabbrica di qualche valore, ha, al contrario, molti caffè e bar, per la sua posizione di cittadina di villeggiatura.

Questi bar accolgono nel loro interno donne e ragazze, belline e che sanno sempre sorridere nel servire i clienti, ragazze che ticchettano veloci e leggere sulle loro agili gambe, anche se è la fine della giornata, una giornata che dura sempre più del normale.

La categoria dei dipendenti da caffè e bar è abbastanza numerosa in città. Essa ha un suo contratto che, su scala provinciale, è stato concordato fra le parti nello scorso mese di agosto, ma come la maggioranza di simili contratti, non viene affatto applicato nei confronti dei lavoratori, anche se ben poco, con quel contratto, i padroni hanno voluto venire incontro ai dipendenti.

Le donne, come sempre, sono le più sfruttate, anche se sono proprio loro che svolgono più ore lavorative e compiono i lavori più faticosi.

La questione, ad esempio, dell’orario di lavoro, è una questione veramente vergognosa. In quasi tutti i locali più grossi della città, le ragazze sono costrette a dover fare più di dieci ore di lavoro, arrivando, in qualche caso, anche a quindici, sempre in piedi e con le mani nell’acqua, soltanto con una piccola sosta di mezz’ora per il pranzo e la cena.

Cosa percepiscono queste lavoratrici?

In diversi posti esse vengono retribuite a percentuale. Il che vuol dire un tanto per cento su ogni portata consumata dal cliente. La percentuale, dice il contratto, varia a seconda la classificazione dell’ambiente. Negli ambienti di riguardo dovrebbe essere del 20 per cento, maggiorata durante il periodo estivo. Essa invece non varia mai ed è applicata nella misura del 16, o al massimo 17 per cento. Alla pasticceria Deon, per fare un esempio, uno dei locali più grossi della città, è applicata nel suo minimo, cioè il 16 per cento, e non su tutte le consumazioni. Così su certe consumazioni le ragazze devono prestare il loro servizio gratuitamente. Come gratis prestano pure la loro opera nella pulizia del locale, al Deon come alla Birreria Pedavena, perché lavorando a percentuale guadagnano solo quando servono i clienti e non quando servono i padroni. Dal canto loro, i padroni non arrossiscono di certo sfruttando in questa maniera le loro dipendenti, anzi pensano sia per esse una fortuna l’aver trovato, di questi tempi, un padrone da servire. Ché, tale è la mentalità, oggigiorno, di certa gente.

Nei bar dove le ragazze non lavorano a percentuale, esse vengono retribuire a mensile fisso. Lo stipendio va dalle 10-15 e al massimo 20 mila lire al mese. Questo è pure il guadagno, tirate le somme a fine mese, che realizzano complessivamente anche le lavoranti a percentuale.

Che vita è mai, quella di codeste ragazze? 15-20 mila lire al mese, uguale a dieci ore di stanchezza di sacrificio, di sonno trascurato, di giovinezza che sfiorisce dietro i sogni non realizzati e che, probabilmente, mai si realizzeranno, finché la dura vita che oggi conducono le tiene prigioniere entro il suo sistema.

Quelle poche volte che sono in permesso, le ragazze dei bar sembrano rivivere, respirando un’aria diversa da quella impregnata di fumo dei locali; ma soprattutto esse sentono la libertà, senza gli occhi inquisitori del padrone, che nel bar sorveglia attentamente ogni loro piccolo movimento per controllare il lavoro.

Tina Merlin

 

A Treviso, per la prima volta nella storia del movimento sindacale

UNA DONNA SEGRETARIA

DI CAMERA DEL LAVORO

DALL’INVIATO

TREVISO – Carmen Buongiorno, 30 anni, socialista, è la prima donna d’Italia segretaria provinciale di una Camera del Lavoro. E stata eletta ieri a Treviso dal nuovo comitato direttivo della organizzazione uscito dal recente  congresso. E’ una novità che conferma il ruolo del movimento operaio nella società Italiana: le mobilitazioni, le lotte, le spinte emancipatrici hanno portato a maturazione problemi culturali e di costume nel cui ambito la posizione della donne è venuta sempre più assumendo connotazioni e presenza rilevanti, protagonista essa stessa di processi democratici e quindi della propria emancipazione dalla secolare inferiorità sociale.

Novità è anche che ciò avvenga nei Veneto un a regione dove la donna è stata tradizionalmente considerata creatura sottomessa, tutta casa, chiesa, bambini, costretta in un ruolo che la estraniava dai problemi politici e sociali. Eppure è proprio dal Veneto che è uscita la prima “donna-ministro” del  Governo italiano, e per di più di un importante Ministero come quello del Lavoro. Ciò induce ad una riflessione che la stessa compagna Buongiorno ci suggerisce dopo la sua elezione alla massima responsabilità del sindacato trevigiano. Gli ideali di giustizia, di fratellanza, radicati nella concezione cattolica della vita, quelli di ispirazione socialista che anche nel Veneto hanno avuto fin dagli albori del secolo grande divulgazione, soprattutto in zone di produzione tessile ed occupazione quasi esclusivamente femminile, hanno profondamente inciso nella coscienza delle donne.

Cosa fossero, allora i laboratori tessili- e nella zona trevigiana ve ne erano molti soprattutto nella Pedemontana- se lo ricordano ancora le vecchie operaie che raccontano le loro battaglie in certe occasioni di incontro, per dire che il Veneto non era poi quella terra tanto remissiva, spesso propagandata. Le Leghe bianche e rosse si svilupparono qui enormemente; lo stesso associazionismo cattolico segnò una presenza fondamentale  prima e dopo la guerra.

Due terribile guerre mondiali vissute con la decimazione degli uomini e con l’invasione del territorio, la resistenza cui le donne attivamente parteciparono, l’emigrazione massiccia aumentarono la responsabilità sociale delle donne, senza riconoscerne il ruolo. Spesso, anzi, queste si sentirono strumentalizzate politicamente “Hanno accumulato tanta rabbia-dice Carmen Buongiorno- da far maturare in loro una determinazione che ha preso coraggio, anche con l’aumento della scolarità, ma soprattutto con la crescita di un forte movimento operaio”. Lo  stesso pontificato di Giovanni XXIII ha significato una grande svolta nel modo di essere del mondo cattolico veneto e nei suoi rapporti con la società.

La  “rottura” con il vecchio modo di penare e di agire è venuta soprattutto con la venuta delle donne in fabbrica e nel sindacato. Dice Carmen Buongiorno, citando l’esempio di Traviso ( ma anche di altre  zone), che nei sindacati CGIL e CISL si trovano diverse donne nelle segreterie di categoria; una donna ricopre anche l’incarico di segretario del sindacato scuola – CGIL. Il rapporto con il mondo maschile, nei luoghi di produzione, è alla pari; non può che diventare altrettanto nelle organizzazioni dei lavoratori e “ le forze femminile che possono esprimersi sono molte”.

Quando ha incominciato Carmen Buongiorno a interessarsi di problemi operai?  A 20 anni, risiedeva allora a Pordenone, andò alla Camera del Lavoro per chiedere una semplice informazione: cercavano una impiegata e lei accettò. A tempo perso il compagno Vidal  che lavorava ai tessili (desidera citarlo in questa occasione come il suo primo “educatore” politico) la portava in giro con sé nelle fabbriche; le faceva scrivere i volantini e la mandava a distribuirli. Scoprì un mondo di fatiche,  di lotte. Fu un impegno che la entusiasmò e che le fece decidere di abbracciare la vita della organizzatrice sindacale. Visse il periodo del  ’69-’70, quello dei consigli di fabbrica; entrò nella segreteria della FILTEA e poi nell’esecutivo a Pordenone diventando segretaria provinciale dei tessili.

Lo scorso anno si trasferì con il marito – farmacista – a Quarto d’Altino, in provincia di Venezia. C’era bisogno di sindacalisti nei tessili di Traviso. Ieri il “salto”. Si sente un po’ infastidita dai troppi giornalisti che l’hanno intervistata,come se fosse una rarità.  “ Novità si, certo – dice – anche un po’ di timore non verso l’interno , ma verso l’esterno del movimento. Per il resto rimango una sindacalista dentro una forte organizzazione nella quale si deve lavorare collegialmente”. I  propositi? “ La continuità delle linee già tracciate dal sindacato: potenziamento dei consigli di fabbrica, allargamento dei consigli di zona per un maggiore intreccio di intenti fra le categorie e fra i problemi di fabbrica e quelli della società”.

Il marito cosa dice? Carmen sorride: “ Ha accettato di sposarmi quando ero già sindacalista; condivide, quindi, la mia scelta”.

Tina Merlin

 

L’Unità. 15 marzo 1976

Contro una condizione umana ed economica di emarginazione.

LE DONNE CONTADINE MANIFESTANO

IN CORTEO PER LE VIE DI VERONA

Diritto al lavoro esercizi sociali gli obiettivi di lotta delle lavoratrice provenienti da tutto il Veneto – In dieci anni oltre due milioni e mezzo di donne espulse dalla terra – Riconversione produttiva, investimenti a favore della agricoltura, sviluppo della cooperazione e dell’associazionismo fra le richieste avanzate nel corso della manifestazione

 

DALL’INVIATO

VERONA, 14 marzo

Non sono solo operaie, studentesse, casalinghe, le donne che si ribellano ad una condizione di inferiorità sociale. Oggi a Verona, centinaia di contadine provenienti da tutto il Veneto hanno sfilato per le vie della città portando in piazza la protesta per la loro condizione.

Di fronte ai padiglioni della Fiera di Verona, che espongono le più avanzate tecnologie nel campo dell’agricoltura, le contadine venete hanno mostrato il risvolto della medaglia: due milioni e mezzo di donne italiane espulse dai campi negli ultimi dieci anni. Buona parte di quelle che avevano trovato lavoro nelle aziende industriali – naturalmente con qualifiche ed attività inferiori – ora sono state licenziate per prime perchè è in queste aziende soprattutto -vedi il settore tessile- che la crisi imperversa.  Altre hanno ingrossato l’esercito dei lavoranti a domicilio: il 77 per cento di questa manodopera sottoccupata e rappresentato da donne.

Quelle che ancora rimangono sui campi non hanno sorte migliore: fanno i lavori meno qualificato perché l’uso dei mezzi meccanici è ancora privilegio degli uomini. Non si insegna ancora oggi, nei corsi di qualificazione professionale, che gli  uomini sono nati per fare i trattoristi, i potatori, e le donne per accudire al giardino, ai polli e ai conigli? Per questo il corteo di stamattina era  polemicamente aperto da tre trattori guidati dalle donne.

Sul piano dei servizi sociali, già così carenti nella città, in campagna siamo all’anno zero. La nuova Legge di riforma del diritto di famiglia non è, forse, neppure conosciuta; la sposa contadina è ancora una “coadiuvante” del capofamiglia, che rimane sempre l’uomo anche se magari lavora in fabbrica ed è la donna che manda avanti l’azienda contadina.

Ne hanno di motivi per protestare, le donne della campagna, anche se il ministro Martora – come ha fatto inaugurando la Fiera di Verona –  si è appellato ancora alla “sana tradizione” (subordinata) dei lavoratori della terra. L’ingannevole, vecchio ritornello è stato perfettamente captato nel suo reale significato, dalle contadine venete, che oggi scandivano in corteo “ la donna contadina non è una arretrata, è soltanto una discriminata” a rispondere in tal maniera a Martora erano anche le donne delle ACLI, con due pullman stracarichi.

Ma queste donne hanno anche imparato che la protesta serve a poco se non è accompagnata da proposte concrete. Le hanno avanzate oggi a Verona, le donne contadine venete,  in questa manifestazione inseritasi perfettamente nell’ambiente della Fiera dell’Agricoltura,  in forma largamente unitaria, sotto il patrocinio del Comitato Unitario delle Donne Democratiche del Veneto, quello stesso Comitato che in ottobre aveva portato in piazza, a Mestre, migliaia di donne per il diritto al lavoro e i servizi sociali.

Le proposte delle contadine non sono disgiunte in fondo da quelle dell’intero movimento operaio. Per superare la crisi occorrono riconversioni produttive e più investimenti; le donne contadine richiedono che una buona parte di questi vengano finalizzati allo sviluppo dell’agricoltura all’interno del quale trovi il suo positivo ruolo la piccola azienda singola o associata, la cooperazione, l’associazionismo per la vendita dei prodotti agricoli, la trasformazione industriale degli stessi prodotti. Più investimenti anche per i servizi sociali nei paesi, nelle frazioni (case decoroso, strade, acqua, elettricità, scuola, trasporti, consultori familiari).

All’interno di questo discorso generale le donne contadine pongono richieste particolari che le riguardano personalmente ma che, in sostanza, tendono a sviluppare una società democratica. Intanto, che il nuovo diritto di famiglia si traduca nella campagna in atti concreti: la reale comunione dei beni, la partecipazione ai pari diritto con gli uomini negli organismi associativi e il cambiamento di alcune direttive comunitarie e degli statuti delle cooperative e mutue. Poi che la Regione Veneto – che dovrebbe tra poco approvare una Legge per la formazione professionale – preveda corsi misti ai quali le donne possano partecipare insieme agli uomini per imparare qualsiasi mestiere. Inoltre che la Regione rediga una Legge per istituire un assegno integrativo di maternità alle donne contadine (come è stato fatto in Emilia-Romagna)

Sono tutte proposte che tendono alla conquista dei diritti civili e politici insieme, primo tra tutti il diritto al lavoro qualificato e sicuro in agricoltura.

In piazza Dante, alla fine non hanno parlato esponenti politici o sindacali ma due lavoratrici della terra: una bracciante di Rovigo e una contadina di Venezia.

Tina Merlin

 

L’Unità 30 aprile 1959 – Pagina della Donna –

I BELLUNESI VOGLIONO

LA RINASCITA DELLE LORO VALLI

Il vero volto dell’emigrazione

BELLUNO, aprile

In primavera i paesi della provincia di Belluno si spopolano. Partono per l’estero, con la vecchia valigia di cartone , oltre 20 mila unità lavorative, delle quali circa cinquemila sono donne. Esse vanno nei Paesi europei a  fare le cameriere o a lavorare nelle fabbriche. Quasi altrettanta manodopera femminile emigra nelle grandi città italiane: donne tuttofare, cameriere, bambinaie, balie. Partono giovanissime, per contribuire a mandare avanti la famiglia. Oltre a quelle costrette ad andarsene altre migliaia di donne – circa diecimila – sono legate alla emigrazione: sono le mogli dell’emigrante, che dell’emigrazione sopportano il duro perso materiale ed umano. Ma per mettere in luce la dura vita di queste donne e delle loro famiglie voglio descrivere alcuni casi – tipo – , nei quali tutte le donne della provincia ritroveranno un po’ della loro storia.

A Pren di Feltre, sono entrata in una famiglia  di cinque persone, i genitori e tre figli: due femmine e un maschio. Il capofamiglia  è emigrato in Svizzera dove lavora come muratore : anche una  figlia è in Svizzera a fare la cameriera. L’altra figlia è stata a servizio  in Italia  e all’estero ed ora è provvisoriamente  disoccupata, ma non starà molto a trovare un posto  di donna  tuttofare. Il ragazzo che ha 17 anni  ed l’ultimo dei figli studia da geometra. “si sono fatti molto sacrifici per lui – dice la madre – perché suo padre desidera che da grande non abbia da fare la stessa sua vita”.

La famiglia possiede circa due ettari di terra e una casetta decorosa “che quando ci siamo sposati era una baracca”. La madre sfatica con la terra, sulla quale vive un capo di bestiame. In ventotto anni di matrimonio il marito è sempre andato via, ogni anno. Prima in Africa, dove si prese la malaria. Poi nei cantieri italiani e dopo in Germania e in Svizzera. Anche la moglie, appena divenuta madre, fu costretta a sfruttare il suo stato. Andò a fare la balia, abbandonando le figlie appena nate in mano di parenti.

In questi giorni ho incontrato un compagno di Seren del Grappa. Aveva gli occhi colmi di pianto perché proprio quel mattino aveva accompagnato al treno la moglie, partita per Milano a fare la donna di servizio. Aveva dovuto decidersi a partire lei, perché il marito è da cinque mesi in attesa di un posto di lavoro. Mi mostrò un portafogli colmo di lettere di varie imprese. Tutte rispondevano: non abbiamo bisogno di altra manodopera.

Un “indesiderabile”

Il compagno mi raccontò la sua storia, che non è nuova in questa nostra epoca: quella di un operaio qualificato comunista espulso dal Belgio come elemento pericoloso; schedato dalla Parrocchia e dai carabinieri i quali si sentono in dovere di informare i datori di lavoro sulle opinioni della gente. Al parroco, malgrado la fede cristiana che lo anima, non importa proprio niente se una madre ha dovuto abbandonare la propria creatura di un anno e mezzo per poterne ricavare i mezzi per farla vivere.

“Una giovanissima cameriera trovata asfissiata dal gas”. Con questo titolo nell’inverno 1958, un giornale com’asco riportava la notizia della morte di Adriana Rossa di 15 anni abitante a Sedico.

Da pochi giorni Adriana era entrata nella nuova casa di Come e “i signori” la lasciarono subito sola per andare a trascorrere le vacanze d’inverno in una stazione di villeggiatura. Non si preoccuparono minimamente se la ragazza s’intendesse di rubinetti e di fornelli,  lei che veniva da una zona sperduta di montagna, dove il vecchio focolare solo da qualche anno è stato soppiantato dalla cucina economica.

Quando gli uomini partono le donne restano sole con una responsabilità enorme di fronte a loro. Divenute capifamiglia e dirigenti della piccola azienda contadina hanno innumerevoli compiti da assolvere di fronte alla famiglia e alla società: i bambini da far crescere, educare e proteggere; quasi sempre il pezzo di campo da coltivare, un lavoro duro e che in montagna rende poco; le mille difficoltà della vita e con dentro al cuore l’immensa dolorosa nostalgia del proprio uomo, il continuo tremore per paura che qualche disgrazia lo possa colpire.

L’emigrazione è una dolorosa realtà che dura da diecine e diecine d’anni, perché nessun governo ha mai pensato di migliorare le condizione dei montanari. In questi ultimi anni si sono fatte leggi e piani per aiutare la montagna. Ma i piani sono rimasti sulla carta e le Leggi non vengono finanziate.

I montanari continuano ad emigrare, perché in montagna non ci sono industrie e la terra è arida e i contadini non hanno i mezzi per farla maggiormente fruttare.

Ora molte porte dell’estero di chiudono e i montanari dovranno andarsene ancora più lontano in cerca di lavoro, oppure rimanere disoccupati. La loro proverbiale virtù di lavoratori viene portata in trionfo dai reggitori della cosa pubblica e dai pulpiti delle parrocchie: si esalta il loro sacrificio sopportato per amore della famiglia, quella famiglia che proprio loro hanno contribuito a spezzare, passando sopra con civetteria a tutti i precetti evangelici.

La loro strada

Ora le donne della montagna hanno capito la menzogna nascosta dietro il motto “Chiesa, casa, bambini”, entro cui le avevano sempre relegate il clero e i benpensanti. Lo hanno capito proprio perché esse devono affrontare ogni giorno la realtà della vita. Ci fu un tempo che la ribellione delle donne della montagna si amalgamò perfettamente con la ribellione di tutto il popolo montanare. Fu durante la guerra partigiana che esse sentirono di valere qualcosa, di avere il diritto di scegliere la loro strada. Da allora iniziò l’emancipazione delle donne della montagna sulla strada della rinascita delle loro valli, per un avvenire migliore delle loro famiglie,. Per questo hanno combattuto e pagato di persona. Per questo si ritrovano ora d’accordo attorno all’iniziativa della raccolta di firme per una Legge di iniziativa popolare per la montagna, che dia   sicurezza al loro avvenire e a quello dei loro figli.

Tina Merlin

L’Unità. 4 giugno 1977