CHIAMAMI GIULIETTA
di
VICHI DE MARCHI
A dodici anni Maria deve lasciare la scuola per andare a fare la domestica in città.
Il suo destino è segnato, ma lei non ha nessuna intenzione di accettarlo.
Una storia senza tempo di emancipazione e libertà
Tra il 1943 ed il 1945 molte giovani donne hanno partecipato alla guerra di Liberazione dal nazifascismo, sia nel ruolo di staffette, di portaordini, di collaboratrici, sia in quello di partigiane combattenti.Chiamami Giulietta, racconta, con semplicità e chiarezza, a un pubblico di ragazze e ragazzi di scuola secondaria inferiore, il contesto in cui si svolge la vicenda di una ragazza, immaginaria ma ispirata alla figura reale della partigiana, scrittrice e giornalista Tina Merlin. Molto nota perché, corrispondente da Belluno per l’Unità, diede voce ai timori degli abitanti di Erto e di Casso per la costruzione della diga del Vajont,
Provincia di Belluno, fine degli anni trenta. Maria è una ragazzina intelligente e vivace, che ama studiare. Tutti i giorni va a scuola con la sua amica Cristina, e lungo il tragitto si divertono a inventare storie e poesie. Maria, tuttavia, proviene da una famiglia povera e il suo destino è già segnato: anche se vorrebbe continuare a studiare, dovrà andare a lavorare come domestica nelle abitazioni dei ricchi, per aiutare i genitori e i fratelli. A dodici anni inizia il suo apprendistato, di casa in casa, per imparare a stare “sotto padrone”: bisogna ubbidire, chinare la testa, essere umili. Maria deve anche allontanarsi da casa e dagli amici, da quel paese di cui conosce ogni pietra e quasi ogni abitante. Comincia così a spostarsi sempre più lontano, prima a Padova, poi a Roma e infine a Milano, sullo sfondo della Seconda guerra mondiale che avanza. Una tappa dopo l’altra, Maria inizierà a maturare, a diventare indipendente e a conquistare la propria libertà.
Età di lettura: da 12 anni.
(UP Feltrinelli)
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STORIA DEL
VAJONT
di
MARCO PAOLINI-FRANCESCO NICCOLINI
Curve, un semaforo, una galleria e poi Lei. Così si arriva alla diga del Vajont, e così arrivano, una mattina di primavera, un padre e un figlio a quella che all’inizio degli anni Sessanta è stata la diga più alta del mondo e teatro di una delle più grandi tragedie italiane.
Una storia fatta di montagne, di uomini e numeri, colpe e responsabilità. È la storia della costruzione della diga del Vajont, della sua parte visibile e di quella invisibile, di tutte le cose taciute, dei segnali e dei rischi mal calcolati e ignorati. Floriano e il figlio Alessandro ripercorrono le tracce del nonno Luzio, che a quel cantiere ci ha lavorato, ma la vera protagonista di questo racconto è l’acqua, ciò che ne abbiamo fatto negli anni e ne stiamo facendo tutt’ora. E per riuscire a comprenderlo, le parole di chi questa storia la conosce molto bene ci guideranno tra i paesi e gli abitanti delle montagne che circondano la diga – Erto, Casso e Longarone – e poi nelle aule del processo che seguì la sera del 9 ottobre 1963.
(Mondadori –dai 12 anni)
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IL DISASTRO DEL
VAJONT
DALLA A ALLA Z
di Toni Sirena
La diga del Vajont è crollata.É stato un disastro naturale.
É stata un’alluvione. Nessuno poteva prevedere. Poco lontano
dall’Emilia Romagna. Un sasso è caduto in un bicchiere.
Quella notte nella valle del Vajont si è compiuto un misterioso
disegno d’amore di Dio. Strumentalizzazione antigovernativa.
Tutta colpa dell’incuria dell’uomo. Sciacalli del Vajont.
Ah, natura crudele.
Sapete che c’è? C’è che la diga non è crollata. Che non è stata un’alluvione, ma…
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9 ottobre 1963: l’onda di trecento metri, la frana a forma di M, Longarone rasa al suolo, 1910 vittime. Erto e Casso, La SADE, la grande diga, il monte Toc. I processi, i colpevoli, gli allarmi, i permessi. La giornalista, i cittadini. Gli errori.
Il disastro, dall’inizio alla fine – anzi, dalla A alla Z
Sono tutti elementi di una tragica vicenda che conosciamo bene e che ad oggi rappresenta ancora un punto centrale per capire gli eventi della nostra intera storia contemporanea. Tra queste pagine ne presentiamo la ricostruzione con un nuovo approccio: si procede come se si dovessero sfogliare le pagine di un dizionario, in una sorta di “guida” alfabetica da consultare per voci. Essa è volta a rispondere a una diversa necessità: quella di evidenziare ruoli e responsabilità, fatti e problemi che hanno avuto ciascuno un peso specifico.
(editorialeProgramma)
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Nel 60° anniversario della catastrofe del Vajont si sono aggiunti quest’anno altri libri, il più importante dei quali è la pubblicazione integrale della sentenza istruttoria del giudice
Mario Fabbri che il 20 febbraio 1968 rinviò a giudizio 11 imputati per frana, inondazione, omicidio colposo plurimo e disastro colposo con l’aggravante della previsione dell’evento. Il volume, Vajont, la prima sentenza. L’istruttoria del giudice Mario Fabbri, a cura di Maurizio Reberschak, Silvia Miscellaneo, Enrico Bacchetti, Cierre, è un documento imprescindibile per la conoscenza del disastro del 9 ottobre 1963.
Marco Armiero, La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro, Einaudi. Armiero è uno storico ambientale, intendendo con questo lo studio delle «relazioni socioecologiche di cui è fatto il nostro mondo» perché «non si possono fare i conti con sistemi ecologici complessi rimanendo prigionieri di una divisione rigida dei saperi che immancabilmente fallisce la comprensione del sistema e del suo funzionamento». Il Vajont si rivela dunque un paradigma delle conseguenze drammatiche che possono derivare da questa separatezza dei saperi e dall’incomprensione delle cause che produssero il disastro. Una parte consistente del libro è dedicata alla memoria del disastro, ma soprattutto alla “costruzione del suo oblio”.
Paolo Di Stefano – Riccardo Iacona, Mai più Vajont. 1963-2023, una storia che ci parla ancora, Rcs. Paolo Di Stefano ripercorre le cronache del disastro apparse in quei giorni sulla stampa italiana. Riccardo Iacona pone invece l’accento sul «modello Vajont» che l’autore riassume così: «Gli allarmi non vengono ascoltati, fino all’ultimo si chiudono gli occhi, il disastro arriva alla fine di una storia più o meno lunga dove a prevalere sono le ragioni dell’impresa, dell’economia, dei soldi. È il modello che sta dietro la tragedia del Vajont». Lo stesso che sta dietro a tante altre tragedie italiane, compresa quella del ponte Morandi di Genova. Il volume contiene anche molti articoli “famosi”: di Tina Merlin, Giorgio Bocca, Egisto Corradi, Dino Buzzati, Giampaolo Pansa, Indro Montanelli, Corrado Stajano, Mario Passi, Ettore Mo, Alberto Cavallari, Giuseppe Longo, Sandro Viola, Lodovico Terzi.
Toni Sirena, Il disastro del Vajont dalla A alla Z, Editoriale Programma. Utile guida alla conoscenza della storia del Vajont, in ordine alfabetico, e perciò facilmente consultabile, contiene brevi ma esaurienti note sia sui principali protagonisti della vicenda, sia sui temi e le questioni fondamentali.
Piero Ruzzante – Antonio Martini, L’acqua non ha memoria. Storia salvata del disastro del Vajont, Utet-De Agostini, è un libro che riserva molte sorprese. Esplora non solo gli anni precedenti al disastro e le testimonianze dirette di chi ne venne coinvolto, ma soprattutto le vicende del dopo-Vajont, ed in particolare quelle relative alle fasi processuali. Lo fa anche sulla base di nuova documentazione attinta ad “archivi minori”, interessantissimi per comprendere molti retroscena e, in alcune parti, modificare ricostruzioni precedenti.
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Nuova edizione ampliata con tre brevi racconti, illustrati con disegni a colori e pubblicati nel 1957 sul giornale per ragazzi “PIONIERE”, diretto da Gianni Rodari.
MENICA E LE ALTRE
Racconti partigiani
di Tina Merlin
Gli otto “racconti partigiani” raccolti sotto il titolo di Menica comparvero per la prima volta tutti assieme nel 1957. Alcuni, Menica col titolo di Menina ad esempio, erano già stati ospitati sulla pagina della donna del quotidiano «l’Unità». Scrivendone all’amico Ricci del «Contemporaneo», Tina Merlin così commentava: «Non è un gran che. Forse non si possono definire nemmeno racconti, forse si devono chiamare bozzetti di vita partigiana”.
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La vita è lotta!
Giovanni Pippan, da Albona a Chicago
di
Giovanni Offelli
La vita è lotta! Giovanni Pippan, da Albona a Chicago, dedicato al leader sindacale dei minatori albonesi nei primi anni ’20 dello scorso secolo, il cui pestaggio da parte di un gruppo di squadristi viene ricordato come uno degli episodi che portarono allo sciopero del 1921, divenuto noto come “Repubblica di Albona”. L’episodio vide il coinvolgimento anche di Francesco Da Gioz, originario di Sedico, partigiano ucciso dai nazisti il 17 febbraio 1945, che ad Albona, durante la rivolta del ’21, fu a capo del comitato d’azione e comandante delle “Guardie rosse”. Il libro ricorda un episodio significativo di un periodo di grandi lotte sociali e le figure del sindacalista Giovanni Pippan e di Francesco Da Gioz, che di quella esperienza furono protagonisti.
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Ritratti di DONNE
di Marzia Schenetti
Dodici Ritratti di Donne, tra cui una intervista ad Adriana Lotto presidente dell’Associazione culturale Tina Merlin per un ritratto di Tina Merlin, che hanno rappresentato e rappresentano il coraggio, la costanza, la determinazione, la forza. Donne controvento.
Marzia Schenetti, nata a Reggio Emilia nel 1965, diplomata in canto lirico e grafica pubblicitaria, è autrice di poesie e canzoni. Nel 2011 ha pubblicato con le Edizioni il Ciliegio “Il Gentiluomo”, una storia di stalking che è stata presentata e utilizzata in molteplici dibattiti e convegni sul tema della violenza e ha suscitato interesse anche nella stampa e nei canali nazionali Rai, dove più volte l’autrice ha portato la propria testimonianza in diretta. La decisione di impegnarsi in prima persona nella lotta contro la violenza e nella divulgazione del concetto socio-culturale di “ex vittima per sempre” ha fatto sì desse voce a chi ha subito violenza costituendo, insieme con altre vittime, l’associazione culturale “MoDeM Movimento Donne e Minori”.
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27 GENNAIO 2022
GIORNATA DELLA MEMORIA
per non dimenticare
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La MEMORIA delle PIETRE
Lapidi e monumenti della resistenza
in Provincia di Belluno
di Aldo Sirena
l’Associazione culturale Tina Merlin di Belluno, nel centesimo anniversario della nascita dell’autore e il venticinquesimo della sua scomparsa, ha curato e pubblicato una nuova edizione del libro di Aldo Sirena, La memoria delle pietre. Lapidi e monumenti della Resistenza in provincia di Belluno, pubblicato 25 anni fa ed ormai da molto tempo esaurito.
Il volume, rivisitato, integrato sulla base di nuovi documenti e ricerche nel frattempo pubblicati, seguendo in ciò lo stesso esplicito proposito dell’autore che sollecitava un impegno di continuo aggiornamento ritenendo il suo lavoro un’opera corale, e arricchito sotto il profilo iconografico, articolato per Comuni, è una ricostruzione storica dei maggiori avvenimenti che interessarono la provincia di Belluno dal settembre 1943 al maggio 1945.
Contiene 300 fotografie di tutte le lapidi e monumenti dedicati alla Resistenza in provincia di Belluno, i nomi dei partigiani ricordati sulle lapidi, con una loro breve biografia e la descrizione del fatto a cui si riferisce ogni singola “pietra”.
Nel contempo è anche una guida storica di quelle vicende tra le vallate bellunesi e, soprattutto per le giovani generazioni, è la testimonianza viva, attraverso le lapidi, i monumenti, i nomi e cognomi dei caduti, della resistenza e della lotta delle popolazioni e delle formazioni partigiane contro l’occupazione tedesca che aveva fatto di Belluno una provincia del Reich estromettendo perfino ogni autorità della repubblica sociale di Mussolini.
Un libro fondamentale per chi vuole conoscere la storia della Resistenza e il contributo di sangue e di sacrifici delle genti bellunesi per la riconquista della libertà, dell’indipendenza e della democrazia.
Editoriale Programma -Treviso
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Il più bell’italiano
Vita partigiana del dottor Mario Pasi
di Giuseppe Masetti
link video presentazione:
https://www.youtube.com/watch?v=3xmD72Xhrto
Nel libro, scritto da Giuseppe Masetti, prende corpo tutta la storia di questo straordinario personaggio ravennate, insignito di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria nel 1950 per la sua attività e per il suo eroico silenzio sotto tortura: la Sezione Gestapo di Belluno lo seviziò per quattro mesi, prima di mandarlo a morte.
E’ una biografia di Mario Pasi (Ravenna 1913 – Belluno 1945), medico, intellettuale, attivista politico, combattente sul fronte francese e greco-albanese, infine partigiano nel Trentino e nel Bellunese dove giunse nel febbraio 1944.
Qui divenne Commissario di brigata, poi di divisione e infine della Zona Piave dopo la riorganizzazione delle formazioni a seguito del grande rastrellamento del Cansiglio.
Catturato per delazione nel mese di novembre alle Roe di Sedico, subì per mesi atroci torture, cui cercò di sottrarsi mordendosi le vene dei polsi. Salvato, il 10 marzo 1945 fu trascinato al Bosco delle Castagne sopra Belluno, e impiccato assieme ad altri 9 compagni. Oggi è un parco storico che conserva la memoria di quei tragici eventi.
Edizioni del Girasole
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Le acque agitate della patria
L’industrializzazione del Piave (1882-1966)
di Giacomo Bonan
«Le acque agitate della patria» (ed. Viella) è il nuovo libro di Giacomo Bonan. Ricostruisce la storia del Piave tra il 1882 e il 1966, date di due catastrofiche alluvioni. L’oggetto del volume è l’industrializzazione del fiume, come indica il sottotitolo: in sostanza la completa artificializzazione del Piave (caso quasi unico in Europa), causata, o meglio “costruita” nel corso dei decenni da più soggetti, ma innanzitutto dalle società idroelettriche e dai consorzi di irrigazione e di bonifica. Nella parte montana il fiume è stato sbarrato da grandi dighe, intubato in condotte forzate, addirittura deviato dal suo corso naturale e portato in altri bacini idrografici, mentre nei tratti di pianura quantità d’acqua eccessive vengono prelevate dai consorzi irrigui. Il processo ha interessato tutto il Novecento e, con diverse modalità, continua ancora oggi. Le conseguenze sono state significative: la scomparsa del regime naturale del fiume, i cambiamenti radicali nei territori, le pesanti ricadute sociali e ambientali fino al disastro del Vajont del 1963, la drastica riduzione del trasporto solido.
Bonan è uno storico dell’ambiente, branca della storiografia che si occupa dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente e in particolare degli effetti sul territorio dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. È postdoctoral fellow alla Goethe-Universität Frankfurt e ricercatore associato al Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Università della Svizzera Italiana. Ha svolto attività di ricerca presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna e la Division of History of Science, Technology and Environment del KTH Royal Institute of Technology. È autore di numerosi saggi e di «The State in the Forest» (Cambridge, 2019).
Edizione Viella
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Tina Merlin
Io esisto
con il mondo
E’ uscito per Edizioni di Comunità, in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti, questo libretto con alcuni scritti di Tina Merlin, stampato da Cierre Grafica. Fa parte della collana “Humana Civilitas”, dedicata a una merce rara: “Il pensiero di donne e uomini liberi animati da un ideale di convivenza umana fondato sulla dignità della persona, sulla responsabilità e sulla cultura del rispetto e dell’accoglienza”. Le altre firme ospitate finora nella collana: Franco Basaglia, Aldo Moro, Enrico Mattei, Ludovico Quaroni, Nilde Iotti, Tiziano Terzani, Ignazio Silone, Vittorio De Sica, Giacomo Matteotti.
Prsentazione
“Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.”
Edizioni di Comunità –Roma www.edizionidicomunita.it
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Il paese scomparso
La diga di Centro Cadore
e i dissesti di Vallesella
Toni Sirena
Là dove c’era Vallesella, un tempo popolosa frazione del comune di Domegge, oggi restano pochissime case. Gli abitanti hanno dovuto andarsene. Al posto del paese ci sono ora campi sportivi e percorsi verdi. Con gli abitanti è sparita un’intera storia, è stata colpita l’identità del paese insieme alle vicende umane e famigliari che lo abitavano. All’origine di questa vicenda, che inizia nel 1950 e si conclude solo alla fine degli anni Novanta, c’è la costruzione di una grande diga sul Piave per realizzare un serbatoio d’acqua e produrre energia elettrica. Quel serbatoio artificiale, impropriamente chiamato lago, sommerse alcune case e alcuni ponti, e inoltre l’acqua, penetrando nel terreno sottostante al paese, provocò fessurazioni e crolli, costringendo gli abitanti a lasciare le proprie case. In tutte le valli alpine dove furono costruite grandi dighe ci furono impatti importanti sulla vita delle popolazioni, sul paesaggio, sull’ambiente, sull’economia tradizionale dalla quale la gente traeva di che vivere. La vicenda di Vallesella va ancora oltre, è esemplare di quella logica di «imperialismo idroelettrico», secondo la quale piccoli paesi di montagna possono, anzi devono, venire sacrificati in nome del progresso e della modernità.
CIERRE Edizioni
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MONTAGNE DEL VENETO
Mauro Varotto, Paolo Lazzarin
Dal lago di Garda al Cansiglio, digradando in ripida scalinata dalle Dolomiti agli altopiani prealpini sino alle morbide ondulazioni collinari, i monti veneti disegnano un grande arco che serra a nord il lembo orientale della pianura padana, affacciata sul golfo adriatico. Il loro profilo chiude sempre l’orizzonte delle città venete, costituendo per i loro abitanti una presenza quotidiana. Con immagini di grande valenza simbolica, il volume svela la capacità di attrazione che le montagne del Veneto hanno saputo esercitare fin dalle epoche più remote, ma anche una certa loro inaccessibile alterità, che ha generato il desiderio di sfidarle e di conquistarle; mette in luce le differenti situazioni naturali e ambientali, la fitta rete di relazioni che connette le coste e i centri abitati con i territori alpini. Combinando iconografia antica e immagini attuali, mostra gli aspetti peculiari e affascinanti della civiltà che si è venuta costruendo al piede di questi giganti rocciosi: le economie dell’alpeggio e del bosco; i modi di costruire e abitare; la religiosità; il dramma della guerra; il nascere del turismo e dell’alpinismo. La vita, insomma, di queste forti popolazioni montanare.
CIERRE Edizioni
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TRA STORIA, SOCIETA’ E CULTURA
Saggi in ricordo di Ferruccio Venramini
a cura di Enrico Bacchetti e Franca Cosmai
E’ uscito un nuovo interessante libro dell’Isbrec che raccoglie 25 saggi in ricordo di Ferruccio Vendramini. Il titolo è “Tra storia, società e cultura” (430 pagine, a cura di Enrico Bacchetti e Franca Cosmai). «Un omaggio, dunque, questo libro», scrivono i curatori nell’introduzione, «Venticinque saggi, venticinque voci che in queste pagine rinsaldano la loro amicizia con Ferruccio». Gli autori: Jacopo De Pasquale, Giorgetta Bonfiglio-Dosio, Marco Perale, Antonio Lazzarini, Roberto Bragaggia, Raffaello Vergani, Orietta Ceiner, Paolo Conte, Rita Da Pont, Giovanni Larese, Gianmario Dal Molin, Mirco Melanco, Francesco Piero Franchi, Emilio Franzina, Luigi Urettini, Silvia Miscellaneo, Filiberto Agostini, Paola Salomon, Daniela Perco, Toni Sirena, Adriana Lotto, Mario Isnenghi, Livio Vanzetto, Diego Cason. Fra i saggi ce n’è anche uno che riguarda direttamente la storia del Vajont: “Il Vajont nei verbali del consiglio di amministrazione della Sade (1949-1964)”, un contributo alla conoscenza di quella vicenda, che fa luce sulle reticenze, silenzi, omissioni e falsità della Sade nel corso di quegli anni, che spiccano evidenti se confrontati con quanto – cosa ormai dimostrata – fu in seguito scoperto dall’inchiesta giudiziaria.
(Il libro può essere richiesto direttamente all’Isbrec di Belluno, tel. 0437.944929)
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La luce a Belluno
La prima illuminazione eletttrica
Tecnologia, storia e giochi di potere
di
Toni Sirena
Belluno accese la luce per la prima volta nel 1897. Fu il secondo grande passo dentro la modernità. Il primo era stato, nel 1886, l’arrivo del treno a vapore. L’evento fu salutato con una grande festa al Teatro Sociale (oggi Teatro Comunale).
I dettagli di quella vicenda sono ora ricostruiti in un nuovo libro da Toni Sirena.
Il testo è accompagnato da numerose fotografie dell’epoca.
Belluno fu il terzo comune della provincia di Belluno a dotarsi di una rete di illuminazione elettrica. Il primo era stato Santa Giustina (1889, ma per un breve periodo), il secondo Longarone (1896). A Belluno va però il primato di aver costruito la prima centrale idroelettrica che raggiungeva i 300 kW di potenza, considerata di grandi dimensioni all’epoca. Per derivare l’acqua il Comune scelse il Caorame, nel territorio di Cesiomaggiore, a ben 26 chilometri di distanza. L’impianto serviva anche Feltre, Sedico e Santa Giustina.
In un primo momento si era pensato, naturalmente, all’Ardo, ma il progetto era stato scartato perché si ritenne che nei periodi di magra non ci sarebbe stata acqua a sufficienza. Le prime idee erano state presentate fin dal 1890, ma ci vollero anni di discussioni per vederle realizzate. Non fu dunque una gestazione facile, anche se va detto che non erano trascorsi molti anni dalla costruzione del primo impianto di illuminazione elettrica in Italia, inaugurato a Milano nel 1883 (si trattava tuttavia di una centrale termoelettrica), appena un anno dopo la prima centrale al mondo (New York).
Oltre a dar conto dell’acceso dibattito cittadino di quegli anni, l’autore ricostruisce anche le vicende successive, segnate da polemiche politiche e tecniche e da lunghe vertenze giudiziarie relative al rispetto del contratto di servizio, alla possibile gestione in proprio grazie alla prima legge sulle municipalizzazioni del 1903, ad una serie di passaggi da una società all’altra che portarono alla fine ad approdare alla Sade.
Libreria Campedel, Belluno
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Vajont: genocidio di poveri
di Sandro Canestrini
“A tutti i morti e i vivi del Vajont. Perché su di loro non cada la pietà”
Questo sta scritto, in dedica, nella serrata, incalzante arringa pronunciata dall’avvocato Sandro Canestrini, il 23 settembre 1969 al processo del Vajont a L’Aquila.
Quella arringa che aveva aperto alzando tre dita alla domanda dei magistrati «Di quanto tempo avrà bisogno, avvocato?». «Tre ore?» aveva insistito il magistrato. «No, tre giorni», aveva precisato Canestrini. E tre giorni aveva parlato. Di perizie e montagne, di persone e capitali, di dighe e testimoni. Dell’Italia di allora e dell’Italia di prima. Di politica, inevitabilmente. Perché, come diceva lo stesso Canestrini aprendo la propria arringa fiume, «Per noi il presupposto cardine è questo: che il fatto per cui si procede non si possa comprendere altrimenti se non calato nel suo tempo, e condizionatore a sua volta di altri “fatti” che rispondano agli stessi moventi e mirino agli stessi fini».
<<… di fronte a una tradizione nazionale che tende sempre a far dimenticare, ricordare la tragedia del 9 ottobre 1963 perde ogni possibile definizione di mesto anniversario, per assumere fortemente quella rivoluzionaria.
Anche la ristampa degli atti di allora è tutta un grido: non dimenticheremo MAI.
Di quella memoria l’arringa di Sandro Canestrini è una delle pagine più belle. Essa non solo dice che cosa è il potere quando non è dato all’intelligenza e all’amore per il mondo, ma insegna la forza, la nobiltà d’animo di disertarlo. Insegna l’indignazione contro l’ingiustizia e la violenza, segno di buona salute prima ancora che di necessità democratica Insegna a non disperare,che verità e giustizia sono destinate a trionfare.
Cierre Edizioni
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NON MANCHERA’
LA MIA VOCE
Le lotte delle donne a Venezia
negli anni Settanta
Delia Murer
Non mancherà la mia voce. Le lotte delle donne a Venezia negli anni Settanta: La passione politica non va in pensione. La militanza è un tratto della vita. Oggi, nelle difficoltà della sinistra, in un’Italia in cui le conquiste rischiano di essere messe in discussione, anche una testimonianza può servire. Parlare degli anni Settanta, della battaglia dell’aborto, del referendum per abrogare la Legge 194, delle lotte delle donne che cambiarono la città di Venezia, può contribuire a far riflettere, a confrontarsi con le giovani, a costruire partecipazione, nuovi obiettivi ed esperienze, per riprendere il cammino del cambiamento.
(CIERRE Edizioni Verona)
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VAJONT
le frane e le onde
Un nuovo libro di Agostino Sacchet sul Vajont.
“Vajont, le frane le onde” è il risultato di anni di ricerche e di studi, di segni e di testimonianze, di consultazione di documenti. Contiene molti dati inediti e propone, con argomenti convincenti, una ricostruzione diversa del disastro del 9 ottobre 1963. «Penso che la presente ricerca», scrive l’autore nella introduzione, «che riunisce nuove osservazioni e considerazioni sulle frane, sulle ondate, sulle prove con il modello di Nove, sulla gestione idraulica del bacino, soprattutto nell’ultimo mese e quindi sull’intera dinamica del disastro, troverà un posto favorevole nella storiografia del Vajont».
Non è il caso di riassumere qui il contenuto del libro, che è bene lasciare alla lettura. Basterà dire che sono documentati i molti errori tecnici compiuti negli esperimenti di Nove, e che viene descritta, sulla base di nuovi dati e testimonianze, una dinamica diversa della frana del Toc: le frane sarebbero state due, in rapida successione, e due le ondate che, scavalcata la diga, hanno travolto Longarone.
C’erano tutti gli elementi per poter prevedere in tempo ciò che poi è tragicamente avvenuto. «C’è stata una conduzione non corretta del bacino, che solo nelle ultime ore è stato gestito in regime di pericolo, se non ancora di emergenza (…). La speranza sembrava essere quella che la “natura” si adeguasse al pensiero degli ingegneri e dei geologi, cioè di coloro che dovevano garantire la gestione della diga anche sotto il profilo della sicurezza». Il bacino è stato insomma gestito, soprattutto nel terzo invaso, «in base alle tesi che negavano l’esistenza della grande frana o che ne escludevano la pericolosità. Le scelte finali erano determinate da motivi economici, legati alla produzione delle centrali del Colomber e di Soverzene».
(Tiziano Edizioni, Pieve di Cadore)
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Nel suo ultimo lavoro Dalla montagna al tuono. Vajont 63, edito da Einaudi Ragazzi, Tommaso Percivale ricostruisce con grande sensibilità e sano spirito combattivo la vicenda del Vajont e la lotta di Tina Merlin contro soprusi e ingiustizie, che altro non era che lotta per un mondo migliore. Scrittura nitida e ritmo incalzante rendono il libro avvincente per un ragazzo che voglia sapere e crescere con consapevolezza.
Tommaso Percivale
VAJONT SESSANTATRE
DALLA MONTAGNA IL TUONO
Questo libro mi ha portato via l’anima.
Dopo due anni torno a raccontare i temi a me più cari: il coraggio, la libertà, la lotta per la verità. Tina Merlin è stata una folgorazione per me. Una giornalista vera, che indaga e denuncia senza paura di nessuno. La sua voce chiara e forte mi risuona ancora dentro e sono sicuro che, se le presterete ascolto, incanterà anche voi.
Accanto, attorno, sopra di lei, la montagna. Sfidata, deturpata, rotta dall’ambizione degli uomini.
Ho sofferto tanto scrivendo questo romanzo, ma ho voluto farlo lo stesso.
Perché la rabbia giusta va gridata e raccontata.
Tommaso Percivale
La voce inascoltata del Vajont.
“Tina Merlin, una giornalista, una combattente,
ma soprattutto una figlia di quelle montagne.”
Il coraggio di una donna che lottò contro tutto e tutti.
Il libro
All’ombra della diga più alta del mondo si dipana una tela di imbrogli e segreti che nessuno ha il coraggio di svelare. Solo una giovane donna, figlia della montagna, ha la forza di scagliarsi contro i soprusi della SADE. «Quelli della diga» stanno devastando la vita e la bellezza del Vajont e non si fermeranno davanti a nulla. Con un passato da combattente partigiana, Tina Merlin sa che la forza della giustizia è capace di cambiare il mondo. Decisa ma riservata, schietta ai limiti dell’aggressività ma onesta fin nelle ossa, Tina è una giornalista vera, che indaga e denuncia. Le sue domande sono capaci di scuotere le coscienze, le sue parole sono pugnali che squarciano il muro della menzogna. Tina si schiera con l’anima e il cuore al fianco della gente del Vajont. Capisce che gli imbrogli dei signori della diga nascondono una minaccia mortale. Il disastro incombe e nessuno fa nulla per evitarlo. Quante vite umane servono per ottenere un buon profitto? Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963, quando milioni di metri cubi di roccia franarono nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda che seppellì due interi paesi e quasi 2000 persone sotto un mare di fango. Cos’era successo? L’interesse economico aveva prevalso sul buonsenso, e tutti avevano taciuto. Beh, non proprio tutti. Una voce si era levata a spaccare quel silenzio colpevole. Una voce forte, pulita e indomabile, come la montagna.
Questa è una storia di lotta, coraggio e rabbia, ai piedi di una montagna che guarda e vede, e non sarà capace di perdonare.
Ed.Enauidi Ragazzi età di lettura: da 12 anni.
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PORTFOLIO ALPINO
orizzonti di vita, letteratura, arte e libertà
di Giuseppe Mendicino
Negli anni durante i quali ho avuto la fortuna di conversare con Mario Rigoni Stern e mentre scrivevo la sua biografia, ho conosciuto, evocate dalle carte o dalla memoria, persone straordinarie o quantomeno particolari: il narratore di Asiago era sempre pronto a lanciare lo sguardo e l’attenzione lontano, verso montagne distanti e diverse da quelle del suo altipiano, e verso uomini e donne che aveva ammirato e amato.
Vite esemplari di alcuni nostri “maggiori”, così potrebbe essere intitolato questo libro: Tina Merlin, Primo Levi, Massimo Mila, Nuto Revelli, Ernest Hemingway, Dino Buzzati e altri meno noti, ma che sarebbe un peccato dimenticare. In qualche caso ne ho scoperto le opere nei mercati di vecchi libri o tra gli archivi, studiando la loro storia e quella del loro tempo; altri li ho conosciuti di persona, per scelta e per quanto potevo. In alcuni di loro il senso etico è più forte, in altri più lieve. Sono tutti, comunque, uomini e donne che hanno tenuto fede con caparbietà ai loro principi di libertà, alcuni più generosi e solidali, altri più individualisti. In tutti, una grande passione per le montagne. Nei ventuno capitoli di questo libro ho provato a raccontare momenti significativi delle loro vite.
Questi profili sono anche storie di sconfitte, ineludibili per loro come per tutti noi; sono la scelta e il modo di battersi, contro l’ingiustizia e la prepotenza, contro lo scorrere del tempo e la fine dei “giorni veri”, che rendono certi uomini e certe donne degni di essere ricordati.
“Grace under pressure”, così Ernest Hemingway definiva un modo energico e serio, ma anche ironico, di affrontare la vita, le battaglie e le battute d’arresto. Senza mai salire sul carro del vincitore di turno, senza mai accodarsi al pensiero dominante.
Solo un ritratto riguarda un giovane dei nostri tempi, innamorato dello scrivere e delle montagne: Paolo Cagnetti. Un altro giovane “camminatore di terre alte”, Nicola Magrin, è presente in copertina con n suo acquerello. Due amici, due scelte di speranza e di fiducia nel futuro.
Ed è ai giovani che Nuto Revelli, uno dei miei maggiori, rivolse queste parole:
Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della “generazione del Littorio”. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta.
Altri amici, meno giovani, mi hanno aiutato a capire meglio il valore della testimonianza civile e della memoria, su tutti Corrado Stajano, presente indirettamente in questo libro con le foto di sua moglie, Giovanna Borgese. Anch’egli, in gioventù, aveva attraversato con passione le Alpi, da Ovest a Est, con una particolare predilezione per i ghiacciai.
Avrei voluto raccontare anche di lui, rappresentante di un’Italia seria e dignitosa, civile e onesta, colta e anticonformista, da sempre minoritaria nel nostro Paese. Ma non ha voluto, e io l’ho ascoltato.
Alla fine dei ventun capitoli ho inserito un racconto, che riporta una storia accaduta di cui ho preferito non svelare i veri nomi dei protagonisti. Come le altre, è una storia di montagne e di amicizia.
Spero che questo libro stimoli a saperne di più delle donne e degli uomini di cui narra, e vorrei che i lettori salissero sulle loro montagne cercando, se l’uomo non le ha rovinate, quel soffio di libertà che sentivano loro, la stessa ampiezza di orizzonti, naturali e civili.
(introduzione dell’autore)
Ed. Piuli & Verlucca
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IL PONTE
DELLE DISGRAZIE
di
Toni Sirena
L’avevano sempre chiamato, semplicemente, il ponte sul Piave. Era sempre stato l’unico ponte, fin dall’inizio dei tempi. Poi hanno sentito il bisogno di chiamarlo diversamente: il ponte di legno sul Piave, il ponte murale, il Ponte di Pietra, il ponte provvisorio, il Ponte di Ferro. E questo per distinguerlo dal precedente, per segnare l’orgoglio tutto cittadino di avere finalmente un ponte stabile degno di questo nome e di una città che nel 1816 era diventata Città Regia con tutti i timbri dell’Impero Austriaco, ed in omaggio alla modernità avanzante, alle magnifiche sorti e progressive. Belluno valeva bene un ponte. Per qualche tempo lo si chiamò anche Ponte di San Nicolò, perché la testata di destra batteva sugli immediati pressi della chiesa dedicata al patrono degli zattieri, i dendrofori dei tempi romani.
Ma il nome che si merita è Ponte delle Disgrazie.
Il primo ponte di cui si ha notizia certa è del 1388, quando il Comune decise di rifarlo con una spesa di duemila ducati d’oro, cifra enorme per l’epoca. Tra quell’anno e il 1840 fu rifatto 22 volte.
Cambiò posizione più volte, ma solo di qualche decina di metri.
Per restare a tempi recenti senza andare indietro di troppi secoli, finì atterrato nel 1811 travolgendo quaranta persone tra sommersi e salvati, al che si rispose con un ponte in legno presto deperito, ricostruito nel 1840 in pietra, di nuovo abbattuto da una piena nel 1851 che non s’erano ancora pagate le spese, sostituito provvisoriamente in legno e incendiato dagli austriaci nel 1866, di nuovo riparato e di nuovo disastrato nel 1869 da una piena, rappezzato alla buona e ricostruito sulle vecchie pile in pietra, distrutto dalla storica fiumana del 1882, rimesso su come passaggio provvisorio ed infine rifatto in ferro ma cento metri più a valle, meraviglia della tecnica moderna e grazie ai napoletani. Resse abbastanza: trent’anni o giù di lì. Furono gli italiani a farlo saltare con la dinamite nel novembre del 1917, gli austriaci a ricostruirlo (in legno) e subito dopo ad incendiarlo nella loro ritirata del ‘18; per un po’ s’andò avanti con un pontone, nell’attesa, assai lunga, di decidersi che tipo di ponte rifare; si decise per il cemento armato, ma prima di vederlo completato le impalcature crollarono e s’atterrò atterrendo con vittime operaie; per passarci sopra bisognò attendere il 1926; lo si chiamò Ponte della Vittoria, lì dove c’era il ponte di ferro e in omaggio alle retoriche post-belliche.
Questo in sintesi. Il Ponte delle Disgrazie accompagnò disastri finanziari comunali per un secolo. Perché non è come per i Papi, che morto uno se ne fa un altro. Occorre trovare i soldi. Per il Ponte di Pietra del 1840 il Comune si dissanguò con le imprese e con le banche, e il debito divenne infinito. Tasse dazi e pedaggi non bastarono che a pagare gli interessi, restando a lungo il capitale debito da saldare per il Comune, trascinato per decenni pure in cause costose con gli eredi dell’impresa che l’aveva costruito, e gravato da nuovi dispendi per rappezzare di qua e restaurare di là, quasi del tutto inutili risultando le accorate suppliche umilmente innalzate prima all’Imperialregio governo del Serenissimo Arciduca Viceré della Cacania lombardo-veneta, poi all’eccelso ministero del Regno d’Italia. Il Ponte delle Disgrazie si mangiò il bilancio, mandando in dissesto il Comune. E adesso siamo pronti per raccontare i dettagli e i retroscena.
(CIERRE Edizioni)
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In meno di quattro minuti
Testimonianza sul Vajont:
la strage e l’umiliazione
di Giuseppe Vazza
C’è voluto molto tempo perché l’autore si decidesse a dare forma di libro alla sua vita. Non ho alcun dubbio sul fatto che questo sia un autoritratto, lo è indipendentemente dalla sua volontà, lo è in un modo dignitoso e potente nelle sue parole misurate. In questo libro ho “visto” Giuseppe in ognuna delle situazioni che ha descritto, nel prima, nel durante e nel dopo e mi sono messo al suo posto. Ho trattenuto il fiato con lui, ho lottato, mi sono arreso e ho ricominciato a lottare più e più volte come lui ha fatto.
Mi sono chiesto se ce l’avrei fatta a mettere insieme questa testimonianza di vita sapendo che rendendo pubblico questo racconto avrei salvato alcuni e dannato altri. Questo è un libro partigiano, un libro di parte, e non può essere che così perché, esattamente come quello di Tina Merlin, questo libro è scritto sulla pelle viva di Giuseppe Vazza.
Ho imparato dalla vicenda del Vajont che non basta essere dei sopravvissuti per essere buoni testimoni. La testimonianza è una scelta dolorosa e faticosa. Ai sopravvissuti va riconosciuto anche il diritto all’oblio, che per alcuni è una via di salvezza.
Ho raccontato la storia del Vajont a lungo, in luoghi non solo teatrali prima di approdare alla diretta televisiva, e con Giuseppe ci siamo incontrati in alcune di queste occasioni, maturando rispetto e stima reciproci. Ho dovuto superare il mio privato senso del pudore per scrivere queste righe in un libro dove si parla anche di me. Il racconto del Vajont è stato per lui una molla, uno stimolo per maturare il suo bisogno di testimonianza. Ne sono orgoglioso e commosso. La sua narrazione contiene tutta l’umiliazione del titolo di questo libro. L’umiliazione di chi vede annegare i propri diritti nella burocrazia e nei tradimenti che si accompagnano, facendo rima, con i risarcimenti, nell’accumulo delle difficoltà quotidiane per riprendersi la vita di prima. Perché nessuno dice chiaramente a chi subisce una catastrofe, un terremoto, che sarà quasi impossibile riprendere la vita di prima.
La pace in cui viviamo ci ha forse annichilito al punto di non riconoscere che a volte bisogna avere la forza di ripartire da zero? Questa è la storia di come si ricomincia. Per questo è un libro partigiano e utile, serve a far sentire meno solo chi ha subito un danno, una ferita e deve imparare a lottare.
Nel testo la parte più per me più importante è quella in cui l’autore descrive come racconta ai visitatori dei percorsi guidati, la vicenda della diga del Vajont e delle genti ad esso legate. Evidenzia come il suo percorso sia fondato sul fatto di aver imparato a raccontare in modo originale, non come un attore ma come un testimone.
Testimone di un mondo spazzato via non tanto e non solo dalla natura ma da un diluvio di piccole e grandi ingiustizie. Raccontare ancora e ancora diventa un modo di riscattare l’ingiustizia con un’azione rivolta ad altri che non produce mai lo stesso risultato costringendo chi la fa ad impegnarsi al massimo. Il libro nasce come una continuazione naturale di quell’attività.
Per ricominciare a volte non basta ricostruire le cose, bisogna tessere il filo che lega insieme le cose. Basta un filo sottile, un filo fatto di parole, ma aiuta. Aiuta tantissimo. Marco Paolini
(ed.Cleup)
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Erminio Ferrari
Cielo di stelle
Robiei, 15 febbraio 1966
“Cielo di stelle. Robiei, 15 febbraio 1966” di Erminio Ferrari racconta la tragedia del 1966 nel Canton Ticino in Svizzera che costò la vita a 15 operai e due vigili del fuoco a causa di un grave incidente nella galleria di un cantiere idroelettrico. Un bel libro, ben documentato, scritto con precisione e passione umana e civile. In quella vicenda ci sono molte somiglianze con quella del Vajont, tra le quali il mancato avvertimento da parte della società idroelettrica della presenza di gas assassino, la presunzione dell’onnipotenza della tecnica, il tentativo di “assolvere” la società, il processo, le transazioni, le mitissime condanne, la vita successiva dei superstiti e dei familiari delle vittime e la rimozione della memoria. Tra i morti c’erano anche due bellunesi: Vittorio Chenet, un caposciolta di Rocca Pietore sul quale si cercò di scaricare ogni responsabilità, e Angelo Casanova, emigrato in Svizzera dopo essersene andato dal suo paese, Gena Alta di Sospirolo, in una valle spopolata a causa della costruzione della diga del Mis.
(ed. Casagrande, Bellinzona)
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BUCHENWALD
1943-1945
Un albero inscheletrito. Una grande quercia dai cui rami pende una corda. Una figura umana ingobbita che passa davanti. Dietro la quercia, le baracche del campo di Buchenwald, il “bosco dei faggi” diventato un campo della morte. Illividito in un inverno gelido, è un paesaggio di sofferenza e morte.
E’ il disegno di copertina di un libro che, dopo l’edizione limitata francese del 1946, rarità bibliografica, rivede la luce dopo 70 anni nella prima accurata edizione italiana, per iniziativa di Cierre e dell’Aned (l’associazione degli ex deportati nei campi di concentramento nazisti), corredata da saggi storico-critici di Maurizio Zangarini e Giovanni Battista Novello Paglianti e dalle introduzioni di Dario Venegoni (presidente dell’Aned) e Arnaldo Loner (avvocato parte civile nel processo sul lager di via Resia a Bolzano). Si tratta di un’ottantina di disegni realizzati tra il 1943 e il 1945 da due straordinari artisti, Auguste Favier e Pierre Mania, resistenti francesi deportati a Buchenwald e fortunosamente scampati alla morte. Una vera e propria sfida all’orrore del campo di concentramento nazista a due passi da Weimar, in Turingia, nel quale vennero assassinati 55.000 deportati.
Ed è anche la testimonianza di una tenace volontà di resistenza all’annientamento. Favier e Mania realizzarono infatti i disegni giorno dopo giorno, su carta di fortuna trafugata durante la prigionia grazie all’aiuto del comitato clandestino di resistenza che agiva all’interno del campo, decisi a lasciare una testimonianza diretta, in assenza di macchine fotografiche e rischiando la vita. Datati e firmati, i disegni venivano nascosti sotto terra e riemersero dopo la liberazione del campo. Un atto di resistenza, dunque, un atto di sfida, un atto di accusa che inchioda i carnefici. Non esistono infatti fotografie dei campi, della vita e della morte quotidiane, se si fa eccezione per le immagini “istituzionali” scattate dai nazisti stessi e per quelle dei soldati alleati nei giorni della liberazione. Nessun documento fotografico è rimasto a documentare l’orrore quotidiano del campo. Nessuna immagine ci è pervenuta nemmeno dei trasporti dei deportati, dall’interno di quei vagoni piombati.
Di qui la straordinaria importanza di questi disegni, realizzati clandestinamente e grazie alla consapevole e rischiosissima complicità dei compagni di prigionia. Senza alcuna possibilità di ribellarsi o di uscire da quell’inferno se non con la morte, i due artisti hanno saputo usare l’unica arma che avevano: la matita.
L’albero del disegno riprodotto in copertina è anch’esso carico di forte valenza simbolica. Era infatti la quercia, sopravvissuta all’abbattimento del “bosco dei faggi” per far posto al lager, sotto la quale Goethe sostava nelle sue passeggiate dalla vicina Weimar. Quella quercia era diventata una forca per le impiccagioni. Rimase distrutta nell’agosto del 1944 durante il bombardamento delle fabbriche del campo. In quel disegno continua a vivere e a gridare, insieme a Favier e Mania.
CIERRE edizioni Verona
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BELLUNO
dall’annessione alla fine dell’Ottocento
Note storiche e di colore
di Adriana Lotto
Come si viveva a Belluno negli ultimi trent’anni dell’Ottocento? Come lavoravano, come si divertivano, pregavano, si azzuffavano, si spostavano, studiavano, abitavano, facevano politica, discutevano i bellunesi di 150 anni fa? Ce lo racconta Adriana Lotto in un libro di agile e divertente lettura, scritto, come riferisce l’autrice in una nota introduttiva, alla fine degli anni Ottanta e che, tramontato all’epoca un più complesso progetto di pubblicazione a sei mani, vede oggi la luce senza peraltro aggiunte rispetto al testo iniziale.
Dalle pagine del libro esce il ritratto di una più piccola città di raccordo tra pianura e montagna, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma non eccessivamente isolata (il treno arriva nell’86) e per niente avulsa dalle correnti di pensiero del contesto nazionale. I suoi poco più di 15.000 abitanti non ne facevano certo una metropoli ma non la relegavano comunque alle dimensioni di una piccolissima città di provincia. Semmai ci si potrebbe chiedere come mai sia così poco cresciuta nei successivi 150 anni a differenza di altri vicini capoluoghi di montagna. Ma il gioco, facile ma non futile, della ricerca delle permanenze è “un utile esercizio”, avverte Adriana Lotto, “per tornare a pensare il futuro della città con qualche entusiasmo in più e un senso autentico di appartenenza”.
Così, seguendo queste tracce si scopriranno le direttrici dello sviluppo urbanistico orientato ormai verso nord occupando campi e terreni agricoli, il conseguente aprirsi del centro storico, un timido inizio di sviluppo industriale che proseguirà poi nell’età giolittiana, una marcata presenza laica e radicale contrapposta al clericalismo ottocentesco, e comunque un mondo ecclesiale vivace, non monocorde, attraversato da correnti di pensiero moderniste e antitemporali in sintonia, se non talvolta in anticipo rispetto al dibattito nazionale, ed in parte ereditate dalle battaglie del Risorgimento.
Il libro è ricco anche di notizie curiose.
Ed. Libreria Campèdel Libreria editrice (Belluno)
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LE DIGHE DELLA PROVINCIA
DI BELLUNO
Storia e immagini
Toni Sirena
C’era una volta il Piave. Di come si presentava nel suo aspetto naturale può conservare memoria diretta solo chi sia nato prima del 1922, anno della deviazione a Soverzene dal suo alveo naturale verso il lago di Santa Croce, le sottostanti centrali idroelettriche, infine il Livenza. Sotto i ponti di Belluno oggi scorrono 12 metri cubi al secondo, ma per molti decenni si era arrivati a 5. La portata naturale media dovrebbe invece essere di 55. Un tempo nelle magre estreme il fiume non scendeva mai sotto i 25.
Dov’è sparito il Piave? Nella provincia di Belluno ci sono oggi una ventina di grandi dighe, altrettanti laghi artificiali, decine di centrali, 200 chilometri di condotte. Il Piave e i suoi affluenti scorrono lì dentro.
E’ un insieme di sistemi idroelettrici di straordinario valore ingegneristico e tecnico. Ma tutto questo ha comportato anche una radicale trasformazione del territorio, del regime delle acque, del rapporto tra l’uomo e il fiume. Come ciò è avvenuto è l’oggetto del libro “Le dighe della provincia di Belluno”, pubblicato per iniziativa del Corriere delle Alpi e di Editoriale Programma. I due volumi contengono anche 450 immagini spesso inedite, raccontano una vicenda che parte dalla fine dell’Ottocento e arriva al 1963, anno della nazionalizzazione delle società elettriche e della nascita dell’Enel, ma anche anno funesto, l’anno del Vajont. Da allora nessuna grande diga è stata più realizzata, rimase a metà l’unica allora in costruzione (a Digonera sopra Caprile), si bloccarono molti progetti in corso e l’idroelettrico, che era arrivato a coprire fino all’85 per cento della produzione nazionale, fu sopravanzato dal termoelettrico diventato più conveniente grazie alla disponibilità di combustibili a costi contenuti.
Una memoria evaporata. Ricostruire questo pezzo di storia, fondamentale per la provincia di Belluno nel bene e nel male, vuol dire restituire memoria e coscienza. Finora se n’è scritto in qualche sporadica pubblicazione, centrata su una singola diga o una singola valle, spesso solo dal punto di vista tecnico. Fa eccezione il Vajont, vicenda sulla quale si sono concentrati gli studi. Mancava però una visione d’insieme. Questo libro ora la fornisce, mettendo in relazione gli aspetti tecnici con quelli economici, sociali e ambientali. Senza tacere i contrasti: fra le società elettriche per la “conquista dei fiumi”; tra i grandi utilizzatori dell’acqua, cioè le società elettriche e gli irrigatori; tra le società (la Sade innanzitutto) e le comunità locali. La provincia di Belluno fa la parte del vaso di coccio tra vasi di ferro, uscendone sempre perdente.
La Sade è il “dominus” indiscusso ma non incontrastato perché operano nel Bellunese altre società concorrenti. Fanno capo a due industriali di origine cadorina, Marco Barnabò e Valentino Vascellari, relegati però in secondo piano dalla Sade, una delle “sette sorelle” dell’elettricità che i quegli anni si spartiscono l’Italia in feudi elettrici, ciascuna monopolista (o quasi) nel proprio territorio di competenza.
Controllori e controllati. Non si capisce il Vajont se si perde di vista il contesto. Il Vajont è solo una parte del tutto, particolarmente funesta. Ma il “modus operandi” della Sade è lo stesso ovunque. Avvio di lavori senza autorizzazione. Abusi delle concessioni. Canoni evasi o elusi. Regolarizzazioni in sanatoria. Istanze concorrenti smarrite nei cassetti degli uffici. Connessioni tra organi dello Stato e società concessionaria. Illustri scienziati che sono allo stesso tempo funzionari pubblici e consulenti Sade. Giorgio Dal Piaz è capo del servizio geologico del Magistrato alle acque e consulente storico della Sade, Francesco Penta è membro della commissione di collaudo sul Vajont e consulente Sade per Pontesei. La diga di Pieve di Cadore viene studiata e progettata insieme da Sade e Servizio Dighe. “Ma senza disattendere il Regolamento”, si legge nella relazione di collaudo, con una sospetta “excusatio non petita”. Volpi è presidente della Sade e ministro delle Finanze, e firma le concessioni insieme all’amico Giuriati ministro dei Lavori pubblici.
Il Vajont poteva essere evitato? Il libro è un lavoro “aperto” e sollecita nuove ricerche. Fornisce una panoramica generale e pone alcune questioni. Sono stati consultati molti archivi pubblici e privati ma altri ne mancano. La nazionalizzazione – o la pubblicizzazione in forma federale – era questione ancora aperta fino al 1922. Il fascismo affida ai grandi monopoli privati il compito di produrre l’energia per la modernizzazione (contribuendo lo Stato, peraltro, fino al 60 per cento dei costi). E’ così che la Sade si incista nello Stato e diventa “uno Stato nello Stato”.
C’è un passaggio cruciale nella storia dell’idroelettrico in provincia. Ed è quando nel 1950 si iniziano gli invasi del serbatoio del Centro Cadore e compaiono voragini sul terreno e lesioni alle case di Vallesella. Si riconosce alla fine che la colpa è della Sade e che l’unica soluzione “amministrativa” (cioè a termini di legge) è il ripristino della situazione precedente revocando o limitando la concessione, eppure lo Stato di diritto si arrende in nome dell’interesse nazionale e perché “la Sade non lo avrebbe accettato”. L’intero sistema Piave-Boite-Vajont sarebbe rimasto “sovvertito”. Se fosse stata applicata la legge anche il progetto del Vajont si sarebbe rivelato economicamente insostenibile. E forse la diga a doppio arco più alta del mondo non sarebbe stata realizzata, o il bacino sarebbe rimasto a livelli molto più bassi.
(editore Editoriale Programma – www.editorialeprogramma.it)
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MONTAGNA
RIVISTA DI CULTURA ALPINA
E’ uscito sul numero di ottobre 2016 di “Montagna”, rivista di cultura alpina del Gism (Gruppo Scrittori di Montagna del Cai) edito in sinergia con Nuovi Sentieri Editore, un bell’articolo di Giuseppe Mendicino su Tina Merlin. Il titolo “L’ultima inchiesta di Tina Merlin”, si riferisce al reportage, pubblicato in più puntate, sul viaggio che Tina fece nel 1985 in Russia sulle tracce del fratello Remo disperso durante la ritirata nel gennaio del 1943.
Mendicino, biografo di Mario Rigoni Stern, racconta anche del rapporto tra Tina e lo scrittore di Asiago che la aiutò in quella ricerca con informazioni, suggerimenti e contatti, indicandole sulle mappe l’itinerario compiuto durante la ritirata dal reparto del Val Piave della divisione Julia, del quale l’artigliere alpino Remo faceva parte. Mendicino ricostruisce i rapporti di affettuosa amicizia che legavano Rigoni a Tina Merlin, entrambi figli della montagna veneta, in una visione comune della vita, della società e della politica. Dopo la prematura scomparsa di Tina, fu Rigoni a promuovere la pubblicazione postuma del suo libro autobiografico “La casa sulla Marteniga”.
L’articolo è corredato di alcune belle fotografie.
(Gism – Milano presso la sede centrale del CAI – nuovisentierieditore@gmail.it)
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KILL HEIDI
Come uccidere gli stereotipi della montagna e
compiere finalmente scelte coraggiose
di Sergio Reolon
Come il classico sasso lanciato in uno stagno, a muovere le stanche acque della politica bellunese (e non solo bellunese) arriva in libreria un nuovo lavoro di Sergio Reolon, agile e denso che fin dal titolo (“Kill Heidi”, prefazione di Annibale Salsa, già presidente nazionale del Cai), riassume un programma: per salvare la montagna bisogna uccidere Heidi, simbolo, come recita il sottotitolo, degli “stereotipi della montagna”, e compiere “finalmente scelte coraggiose”. La montagna non è tutta rosa, fiori e uccellini, non è un luogo immaginario e immaginato. Heidi è il concentrato simbolico della sottomissione, prima di tutto culturale, della montagna alla città.
Uccidere Heidi è una missione possibile? Sì, a condizione che i montanari recuperino una visione strategica per costruire il loro futuro. E questo è il compito della politica. O meglio: di una Politica con la P maiuscola, che vuol dire, scrive Reolon con un auspicio da “inguaribile ottimista” come dichiara di essere, “che la provincia di Belluno possa ritrovare la volontà di proporsi in maniera unitaria e il coraggio delle grandi scelte, guidata e animata da montanari civici”.
Oggi questo coraggio pare tramontato. Il paesaggio è ingombro non di “montanari civici”, ma di montanari “scompaginati”, “localisti” o addirittura di “non montanari”. In un grafico Reolon li esemplifica, collocandoli in una griglia che li distanzia o li avvicina da un lato al localismo, dall’altro alla visione globale e, naturalmente, alla conoscenza del territorio. I non montanari si credono montanari perché in montagna ci vanno in vacanza o la frequentano sugli sci, ma spesso sono gli stessi che legiferano sulla montagna senza conoscerla davvero. Il montanaro “scompaginato” appartiene ad una specie che vive in montagna ma senza conoscerla, “ben inzuppato di idee localistiche”. Il montanaro “localista”, che spesso va a braccetto con lo “scompaginato”, vive nel costante “rimpianto del bel tempo andato”, incapace di guardare oltre, chiuso a riccio nel proprio piccolo mondo e nelle proprie granitiche certezze come reazione alla globalizzazione. Tutti sono occupati nella poco nobile gara di azzuffarsi fra loro, dando voce a un coro di lamentele. Pare questa oggi l’unica voce che si alza dalla disastrata montagna bellunese. Riassume Reolon: assenza totale di guida, di coesione e di visione. Di fiducia in se stessi e nel futuro.
Qualche luce c’è, soprattutto nell’economia, ma si limita ad illuminare qualche caso esemplare: le “buone pratiche” sono rispettabili, ma da sole non bastano. Ci vuole, appunto, la Politica, cioè la capacità di pensare e costruire il futuro, il luogo della mediazione e della decisione, fondato su “un serio sistema di democrazia rappresentativa”, mica su una piattaforma internet.
Un sentiero difficile, talvolta stretto, oggi comunque quasi ostruito da detriti, che hanno nomi precisi: litigiosità, rinuncia a confrontarsi, incapacità di unire diversità e progetti (dove ci siano), personalismi, mancanza di coraggio, di visione d’insieme. Tutto ciò produce forse, quando va bene, una buona amministrazione. Ma senza uscire “dal pensiero dominante iper-liberista”, che riduce tutto a merce e a mercato, la montagna – che non ha abbastanza consumatori e non è interessante per il mercato – è condannata. Se i passeggeri sono solo “clienti”, nessuno verrà qui a fare una ferrovia. Reolon non propone un ritorno allo statalismo vecchio stampo, ma un deciso ruolo del pubblico, l’unico capace di riequilibrare le distorsioni del mercato, di ridare dignità alla montagna, di far sì che non ci siano cittadini di serie A e di serie B. Ma se manca un disegno strategico quel sentiero continuerà a rimanere impraticabile.
E’ un appassionato appello, quello di Reolon, agli abitanti della montagna a osare e “guardare oltre”. Un sasso nello stagno, appunto. Sperando che produca qualche onda.
(editore curcu & genovese, Trento)
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di Giuseppe Mendicino
MARIO RIGONI STERN
vita guerre libri
Montagne, guerre e libri hanno segnato profondamente la vita di
Mario Rigoni Stern.
La panchina e il tavolo di legno tra gli alberi sotto casa, dove nella
bella stagione Rigoni accoglieva i visitatori, sono sempre lì, manca solo
la betulla: è stata tagliata lo scorso novembre perché malata; l’aveva
piantata lui ed era uno dei suoi alberi preferiti insieme al larice. C’è
il sentiero subito dietro l’orto, da dove saliva verso lo Zebio, anche
se ormai coperto dalla vegetazione. La presenza di Mario, tra la casa
e il bosco e il paesaggio intorno, si avverte più forte che mai, specie
quando si cammina in silenzio. A Rigoni piaceva immaginare che i
suoi lettori, ripercorrendo valli e montagne raccontate nei suoi libri,
provassero almeno in parte le sue stesse emozioni.
Lo indignavano le ingiustizie e le prepotenze verso i deboli e verso
la natura, aveva un codice di valori solido e coerente, che lo guidava
nella vita di tutti giorni come nella scrittura.
Anche quando le sue storie rievocano vite e luoghi portati via dal
tempo, la tensione etica che le attraversa le rende attuali, perché guerre,
distruzione dell’ambiente e ingiustizie non sono regredite rispetto
al secolo passato. La nitidezza della sua scrittura e la narrazione dei
fatti come davvero avvenuti, sono un piccolo viatico di civiltà contro
retorica e superficialità, oltre a essere una piacevole compagnia.
Nella fotografia si vede Rigoni camminare tra la neve tante volte
ricordata nei suoi racconti, in un luogo di frontiera (…)
(dall’introduzione dell’autore – Priuli & Verlucca editori)
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la memoria delle pietre
di Aldo Sirena
Questo libro è frutto di un paziente lavoro di ricerca, durato alcuni anni, su documenti, su pubblicazioni, su testimonianze ed in primo luogo di un ampio rilevamento su tutto il territorio della provincia di Belluno dei ricordi marmorei o monumentali dedicati alla resistenza ed ai suoi caduti. Esso non vuole essere la storia del Movimento Partigiano nel Bellunese, ma, piuttosto ed anzitutto, un omaggio al sacrificio di tanti compagni caduti per la libertà ed al loro eroismo.
La struttura portante di questo libro ha un taglio particolare; esse segue passo passo la sequenza di ricordi marmorei, di cui è disseminata gran parte della provincia. Sorprende il loro numero, ma soprattutto, a distanza di tanti anni, la loro conservazione e la cura che mani sconosciute offrono in continuazione in fiori e pulizia. Per ogni caduto abbiamo cercato di ricostruire sulla base di testimonianze, dati e documenti, il clima in cui si compì l’olocausto od il martirio.
Ci auguriamo che questo lavoro possa servire ad avvicinare la gente, ma soprattutto i giovani, alla conoscenza di un periodo storico drammatico, che, con i suoi principi ed i suoi fondamenti, sta ancor oggi alla base del nostro stare insieme.
(dalla premessa dell’autore)
Aldo Sirena “Nerone” Comandante delle Brigate Tollot e Pisacane
PASSATO PROSSIMO
di Luigi Dall’Armi
Ciò che l’autore ci offre in questo libro è il racconto, non cronologico ma condotto attraverso il filo di impressioni e di ricordi tematici, dell’ambiente e delle mentalità che caratterizzarono la Resistenza nel bellunese e influenzarono il comportamento politico e sociale di massa anche degli anni successivi. Lo fa attraverso la finzione di rivolgersi alle nuove generazioni per spiegare la complessità della costruzione resistenziale più che per raccontare i singoli avvenimenti, le particolari azioni belliche ed i combattenti, il procedere del coinvolgimento degli abitanti delle valli e dei monti.
Ma proprio perché non si tratta di un testo strettamente autobiografico né di u tradizionale libro di memorie, ci troviamo di fronte a pagine molto ricche e molto dense, scritte con indubbia passione, ma anche a volte con fredda lucidità e distacco di analisi e critica.
Luigi Dall’Armi “Franco” Comandante della divisione Garibaldi Belluno
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Tea Palman
Il diario di Tea Palman lo si può leggere in:
Al capitolo Tea Palman, Diario della mia prigionia di Adriana Lotto
In Deportazione e memorie femminili (1899-1953)
Ed. Unicopli, Milano 2002 a cura di Bruna Bianchi e Adriana Lotto
>> leggi l’intervista di Adriana Lotto a Tea Palman<<
Dedicato a Tea
Non è una biografia, né una raccolta di testimonianze, ma la ricostruzione delicata di un percorso di vita, scandito da dolori persistenti ed effimere gioie, diviso dalla guerra. Un omaggio a Tea Palman (nata il 16 aprile 1922), mite signora che nelle sue piante e nei suoi canarini trova lenimento alla sofferenza fisica e all’assalto dei ricordi. Lo stesso che prende Bettiol e tutti coloro che hanno conosciuto i Lager nazisti e ne portano indelebili segni.
Il diario di Tea, un documento estremamente importante che racconta la partecipazione di una giovane donna alla Resistenza, costretta a subire angherie e soprusi in un periodo della propria vita che avrebbe dovuto essere il più bello e il più spensierato, invece per Tea si rivela il più buio, triste e terribile, durante il quale viene costretta a subire anche la tortura e la carcerazione nel lager di Bolzano.
Tullio Bettiol, Il diario di Tea Tarantola ed. Belluno 2009
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Guida alla Venezia ribelle
Dopo Parigi, Barcellona e Roma, ora Venezia.
È ancora possibile pensare a una Venezia che non guarda passiva allo spopolamento dei residenti, all’invasione dei milioni di turisti e al proliferare di negozi di maschere e vetri cinesi? Rispolverando le pagine di storia, aprendo le orecchie per ascoltare la voce degli abitanti e uscendo dalle traiettorie prestabilite, la risposta è senza dubbio affermativa. Ne danno prova le giornaliste Maria Fiano e Barbara Barzaghi, con questa guida intitolata “Venezia Ribelle”. La novità non sta solo nell’obiettivo di mostrare il volto di una Venezia all’avanguardia.
“Lo sguardo ‘ribelle’ non si acquieta di fronte alla visione struggente di una città da cartolina, epurata e amputata dell’imprevisto, ma scruta l’altro lato delle cose a partire della complessità del presente e delle sue contraddizioni…”
Venezia: città ribelle sin dalle sue fondamenta, che sfida le leggi della modernità e dell’equilibrio in continuo e fragile “passo a due” tra l’acqua e la terra. Una città-che ne racchiude tre (il centro storico, le isole della laguna e la terraferma con Mestre e Marghera)- con una storia costellata di ribellioni. Una Venezia lontana dagli stereotipi, raccontata anche attraverso i contributi di tanti che a diverso titolo la abitano, la amano, ne parlano.
Raccontando storie di donne anticonformiste, ancora oggi custodite nelle pietre. “Non siamo mai state d’accordo – hanno detto le due giornaliste– con l’idea di una Venezia che sta morendo. Ci sono tante persone che se ne vanno, ma altrettante che rimangono e cercano di farlo nonostante le problematiche della città”. Si ricorda anche Tina Merlin vissuta a Venezia dal 1974 alla sua morte 1991.
Edizioni Voland
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IL VOLTO NASCOSTO DELLO SVILUPPO. CONTADINI, OPERAI E SINDACATO IN FRIULI DALLA RESISTENZA AL “MIRACOLO ECONOMICO”
Una storia del Friuli vista dal basso, con gli occhi di chi ha lavorato, sofferto e lottato. Dalla caduta del fascismo al “miracolo economico”: passando per la Resistenza, la ricostruzione, le ultime lotte per la terra e le prime per i diritti delle donne, la sconfitta dei movimenti contadini ed operai e la grande emigrazione, la fase dell’industria tayloristica e l’inizio dello sviluppo consumistico. Fino all’evento che sintetizza le contraddizioni dell’epoca: il “genocidio dei poveri” sul Vajont, con una cinquantina di pagine davvero molto interessanti (il prima e il dopo), molto ben documentate, con numerosi aspetti inediti.
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E’ un libro (Adelphi) sul cinema come abitualmente non se ne leggono, per la semplice ragione che non ne vengono scritti. Parte da lunghe conversazioni fra Tatti Sanguineti e uno dei personaggi più singolari e influenti del cinema italiano nel periodo d’oro: Rodolfo Sonego, sceneggiatore di tutti i film maggiori di Alberto Sordi. Ricostruisce, attraverso la rievocazione di volta in volta malinconica, sorridente, abrasiva, feroce di Sonego, molte delle vicende accadute in quell’immane circo le cui le attrazioni erano la Mangano, la Lollo o Laura Antonelli, i cui domatori potevano chiamarsi Carlo Ponti o Federico Fellini, e il cui impresario occulto, ben nascosto dietro le quinte, era il suo primo censore: Giulio Andreotti.
“Sordi non era un uomo colto. Non ha letto i libri, non ha letto i testi sacri, non ha letto niente, non gliene importa niente di niente. Ma ha un colpo d’occhio infallibile Il suo giudizio è sempre immediato e fulminante. E’ un’entità biologica purissima. E’ un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte. Una civetta , oppure un cobra, un falco”.
Rodolfo Sonego
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Un libro (Morire a Mattmark, Donzelli editore), parte integrante di un progetto di ricerca finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica, ricostruisce minuziosamente l’intera vicenda della tragedia di Mattmark, a partire dai primi progetti dell’inizio degli anni Cinquanta fino alla sentenza d’appello del 1972. L’autore, Toni Ricciardi, è storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra.
Il disastro, avvenuto due anni dopo il Vajont e nove dopo Marcinelle, scosse di nuovo, profondamente, l’opinione pubblica, costrinse ad interrogarsi sulle condizioni di lavoro nei cantieri idroelettrici e sul trattamento dei nostri emigranti in Svizzera, oggetto all’epoca di una violenta campagna xenofoba. Provocò inoltre tensioni nei rapporti fra Italia e Svizzera e, all’interno, accuse al governo di non tutelare gli emigranti italiani. La tragedia fece emergere ancora una volta la connivenza di molti esperti con le società elettriche, alle quali erano legati da molteplici interessi. I pochi che avevano messo in guardia sulla pericolosità del ghiacciaio furono screditati. Uno di loro, Nicolas Oulianoff, di origini russe, professore di geologia all’Università di Losanna, lo si disse addirittura fratello di Lenin. La sentenza dichiarò che si trattava di una catastrofe naturale e imprevedibile e mandò assolti gli imputati, giudizio confermato in appello. I ricorrenti, cioè i famigliari delle vittime, vennero condannati al pagamento delle spese processuali.
Il libro di Ricciardi ripercorre, con una accurata documentazione, l’intera storia di Mattmark, fatta di grandiosi progetti (serbatoio di 100 milioni di metri cubi, produzione di 650 GWh all’anno), ma anche di condizioni di lavoro pesanti, supersfruttamento, alloggi primitivi, negazione degli elementari diritti democratici (come quelli di associazione e riunione sindacale e politica). Le baracche furono costruite direttamente sotto il ghiacciaio, il più vicino possibile al cantiere per risparmiare sui costi e sui tempi di spostamento della manodopera. Vennero inoltre sottovalutati i segnali di allarme che da giorni si succedevano.
Video http://www.toniricciardi.it/
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IN SENATO UNA MOSTRA PER NON DIMENTICARE
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Un libro sorprendente, una raccolta di racconti di viaggio per bambini scritta dal collettivo Wu Ming.
Uno dei racconti, “Toc e Patoc”, è dedicato a Tina Merlin e racconta bene ai bambini la storia del Vajont.
I protagonisti sono Guido e Adele Cantalamappa, due hippie ormai anziani che hanno girato tutto il mondo viaggiando attraverso il tempo e le nazioni. Hanno tante storie da raccontare e le raccontano così bene che ti sembra di sentirli cantare. Cantano le mappe dei loro viaggi. Il messaggio delle storie raccontate da Wu Ming va però oltre i viaggi dei Cantalamappa e i luoghi in verità servono da innesco per compiere ulteriori riflessioni, stimolano i piccoli lettori (ma anche i grandi) a guardare il mondo con occhi nuovi e a mente aperta, per coglierne la bellezza, la responsabilità verso gli altri e verso le cose che ci circondano. Un libro di racconti ispirati a luoghi della Terra abitati da antiche leggende, oppure teatro di eventi memorabili, o ancora a mezza strada tra la realtà e la fantasia.
Illustrazioni di Paolo Domeniconi
ElectaKids
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“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Primo Levi
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Si parla sempre di partigiani, di uomini coraggiosi e indomiti ma meno spesso si parla di partigiane, di donne di ogni età e estrazione sociale che hanno ugualmente sacrificato la loro vita per lo stesso, identico ideale. Erano infatti loro ad essere ‘usate’, perchè meno controllate, come staffette per portare messaggi in codice, trasportare viveri, traferire armi. Di una di loro, una contadina imponente, con mani screpolate e gambe grosse, instancabile lavoratrice, senza nessuna istruzione ma con una forza indomabile, ci regala un appassionato ritratto Renata Viganò nel bel libro ‘L’Agnese va a morire’.
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In una sera d’autunno del 1942 una donna contempla la conca di Cortina dall’alto del balcone di casa. E’ un’insegnante di scienze naturali e istruttrice di sci, ama la montagna e l’ha scelta per viverci. Ma per la prima volta sente che tutto ciò non le basta più, e così le tornano in mente le parole della madre: “ Ti accorgerai un giorno che non c’è solo la natura…che c’è la gente…”. Su quel balcone, avvolta nella coperta sotto il cielo stellato, la giovane medita su di sé e su quanto sta accadendo, e decide di entrare nella Resistenza. Si apre così, con questa scena intensa del prologo, I giorni veri di Giovanna Zangrandi (pseudonimo di Alma Bevilacqua) diario della resistenza in Cadore, pubblicato per la prima volta nel 1963.
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La cronaca autentica con potente narrazione di vita vissuta di un gruppo di partigiani della montagna bellunese, scritta a caldo, subito dopo la guerra, da uno di loro (pubblicata da Einaudi nel 1977): speranze giovanili, scelte drammatiche si intrecciano in un racconto – ancora oggi straordinariamente “giovane” – che ci iuta a riflettere, senza retorica, sui valori della libertà, collettiva e individuale. E sul prezzo che essa ha comportato.
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Belluno in guerra 1915-18
di Toni Sirena
La città e la provincia di Belluno strette nella morsa del fronte del 1915-18. Una testimonianza storica resa attraverso immagini dell’epoca, talvolta crude e sconcertanti, e narrata da Toni Sirena nel suo ultimo libro “Belluno in guerra 1915-18”. Una storia narrata con 200 immagini, descritte da testi brevi e agili, che testimoniano accuratezza e puntiglio storico. Sirena racconta Belluno alla vigilia della guerra, l’anno della neutralità, le manifestazioni dei disoccupati, gli episodi principali del fronte dolomitico, l’opera del politico socialista, medico e fotografo Carlo Pagani, innovatore e attento ai cambiamenti del suo tempo. Le immagini raccontano di un popolo fondamentalmente contadino costretto dalla fame a nutrirsi di topi e ortiche. La sezione centrale è costituita dalle immagini del lungo anno dell’occupazione austriaca, dopo Caporetto fino alla liberazione del novembre 1918: i ponti fatti saltare dagli italiani in ritirata e provvisoriamente ricostruiti dagli austriaci, la vita degli occupanti, la città stremata dalla fame e dalle angherie di quelli che Pietro Mandruzzato, facente funzioni di sindaco (quasi tutta la classe dirigente era fuggita per tempo), chiamava i “velenosi microcefali”, cioè gli ufficiali austriaci, autori di ordini vessatori e imbecilli, infine la ritirata austro-ungarica e le nuove rovine di ponti, di paesi e di strade. Molte le immagini inedite o poco conosciute. Oltre alle belle vedute panoramiche della Belluno in riva al Piave (o meglio la Piave, come si diceva allora) fatte di lavanderie all’aperto, concerie, segherie, officine fabbrili, e di tanta acqua che a quel tempo scorreva ancora sotto le mura, vanno citate le immagini dell’aeroporto militare di Belluno, del recupero del corpo di Arturo Dell’Oro caduto in un duello aereo sulla Schiara, delle officine del Genio militare, dei topi messi ad essiccare durante “l’anno della fame”, infine dei funerali a Cortina di un ufficiale (ma la foto cela un mistero).
Un libro di divulgazione storica nel quale le foto hanno vita propria: sono il vero racconto e non semplici “illustrazioni” di un testo.
Editore Dario De Bastian