Vajont, una tragedia inutile
Il 9 ottobre 1963 la tragedia del Vajont cancellò tre paesi, provocò duemila morti e privò d’un sol colpo il sistema di sfruttamento dellle acque del Piave a fini energetici ed irrigui, di una riserva di 150 milioni di mc d’acqua. Un dato che, al di là delle stesse ragioni che determinarono la catastrofe, avrebbe dovuto da solo far rivedere al subentrante ENEL (il nuovo ente per l’energia elettrica perfezionava in quei mesi l’acquisto della società privata SADE) i programmi di produzione di energia elettrica previsti per gli anni successivi e, allo stesso tempo, costringere il Governo ad avviare la revisione quantitativa dei disciplinari per le concessioni ai Consorzi di Bonifica della pianura.
Non successe nulla di tutto questo, anzi l’ENEL mantenne gli obiettivi prefissati di produzione energetica e li adeguò all’onda crescente di sviluppo delle aree industriali e civili di pianura fino ai giorni nostri con uno sfruttamento esponenziale dell’acqua del Piave e i Consorzi di Bonifica aumentarono progressivamente la loro quota di adduzioni fino ad oggi con una percentuale di oltre il 20% in rapporto alla quantità usata nel 1963.
E’ qui che inizia una nuova, trentennale tragedia poco conosciuta, ma che ha già avuto le sue vittime (alluvione del 1966), i suoi danni ingenti al territorio ed al patrimonio materiale dell’intera regione (le piene incontrollate degli anni successivi), sino all’incombere di un rischio idraulico diffuso per parti consistenti delle province di Venezia e Treviso come evidenziano i recenti studi (1996) prodotti in allegato ai Piani Territoriali Provinciali di Belluno, Treviso e Venezia.
Un caso esemplare di sfruttamento dell’acqua
Per poter mantenere gli obiettivi programmati, l’ENEL ha completato in questi decenni, con impressionante metodicità, l’intera trasformazione artificiale del bacino montano del fiume Piave per tutta la sua estensione (un’area di circa 3.750 Kmq), succhiando tutte le acque dei torrenti affluenti ad alta quota, riutilizzando attraverso sistemi di sfruttamento integrati, la stessa acqua che viene pompata, incanalata ed, alla fine, persino indirizzata verso bacini diversi da quelli d’origine.
La rete artificiale che ormai ha modificato profondamente ed irrimediabilmente il corso del fiume, conta di una cinquantina di “prese” ad alta quota che drenano l’acqua dei torrenti (circa il 75% della quantità in scorrimento per circa 2.000 milioni di mc l’anno), di un gigantesco sistema di by-pass di oltre 200 km di tubature in gran parte sotterranee, di 17 invasi di media grandezza, di 30 impianti di produzione e di un’infinità di altri sbarramenti e arginature funzionali.
E’ drammaticamente esemplare, il fatto che l’acqua del ghiacciaio della Marmolada, che scende da altissima quota verso gli affluenti del Piave, prosegua attraverso percorsi completamente artificiali sino a sfociare in un altro fiume in pianura, il Sile; allo stesso modo, l’acqua del medio corso del fiume Piave viene deviata in forte quantità (circa 40 mc/s) verso il bacino del Livenza nel Friuli occidentale per essere utilizzata ancora a scopi idroelettrici.
Nel 1997, “la produzione nazionale di energia elettrica in Italia è stata di 251 miliardi di kWh. Di questi 187 miliardi di kWh sono stati prodotti dall’ENEL. Restando in ambito ENEL, la produzione idroelettrica è il 18% circa del totale (…) In particolare, la provincia di Belluno ha prodotto nello stesso anno il 5% della produzione idroelettrica”[1] corrispondente a circa 1,68 miliardi di kWh.
Ancora: i Consorzi di Bonifica della pianura hanno continuato ad usare con grandi sprechi l’acqua del Piave, drasticamente prelevata dal corso naturale e deviata verso le prese, usando di antiquati sistemi irrigui (il metodo a spaglio già introdotto dalla Serenissima Repubblica di Venezia) senza provvedere ad ammodernare progressivamente la rete per evitare sprechi.
Il Brentella, il Destra e il Sinistra Piave, il Basso Piave[2] e l’industriale Piavesella , a fini agricoli, industriali ed in parte civili, prelevano dal fiume poco meno di 100 m3/s all’anno, “ (…) un’utilizzazione molto spinta se si considera che la portata media naturale del fiume è di 115 m3/s e che durante i periodi meno ricchi d’acqua si può scendere abbondantemente sotto questo limite”[3] .
Completano il quadro degli usi delle acque del Piave, i prelievi autorizzati (alcuni grandi acquedotti fra cui quello di Venezia) e quelli abusivi (centinaia di aziende dell’alta pianura trevigiana e migliaia di fontanili privati) che sottraggono in zona di risorgive una quantità enorme – difficilmente quantificabile – di acqua alla funzione di ricarica delle falde acquifere che alimentano molti corsi d’acqua della pianura che, di conseguenza, si sono drasticamente ridotti nelle portate.
Negli ultimi trent’anni, questo dissennato sfruttamento ha ridotto di circa 1/3 la portata del Piave nella sua parte finale, ha del tutto prosciugato circa il 90% dei torrenti d’alta montagna, “modificando profondamente la dinamica delle esondazioni torrentizie”[4] con conseguenze strutturali abnormi: il letto ghiaioso del fiume, largo in alcuni punti anche alcuni chilometri, modulato nei secoli dalle piene e dalle morbide, si è alzato mediamente di circa 3 mt (con punte di 7 mt a valle dello sbarramento di Busche) non avendo la corrente più la forza necessaria per portare detriti e sabbia a valle.
Di conseguenza, gli arenili a nord della laguna di Venezia (Cavallino, Jesolo, Eraclea) sono stati mangiati dall’erosione marina causa il mancato ripascimento; nelle piane ghiaiose del greto sono cresciuti interi boschi cedui che costituiscono ostacolo al defluire delle acque di piena e la qualità dell’acqua, quasi completamente scomparsa nell’alto e medio corso, è fortemente compromessa da scarichi biologici ed industriali.
1988, ridare acqua al Piave
Di fronte a questa situazione e ai danni che ha provocato e continua a provocare lo sfruttamento intensivo del Piave, il bellunesi da anni manifestano un’opposizione che è andata crescendo.
“Il contenuto dei circa 50 disciplinari di concessione che regolano le grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico nella Provincia di Belluno e che sostanzialmente vengono ad incidere sull’intero sistema idrografico del bacino del fiume Piave, fa emergere un quadro estremamente arretrato e drammaticamente confliggente con gli interessi territoriali ed ambientali della Provincia di Belluno” recita una delle numerose prese di posizione del Consiglio Provinciale di Belluno (11 dicembre 1995) trasformata in istanza di revisione delle concessioni a scopo idroelettrico ed irriguo ed inviata il 4 gennaio 1996 a tutti i livelli istituzionali più alti, dal Ministero dei LLPP competente istituzionalmente in materia sino al Presidente della Giunta Regionale del Veneto.
Non è la prima presa di posizione della Provincia che sin dal dicembre 1992 con propria delibera, aveva costituito un Comitato di Consulenza tecnico-scientifica con l’incarico di esaminare i disciplinari di captazione, prevedendo, in particolare, l’elaborazione di proposte in ordine alla questione delle regimazioni idrauliche.
Neanche l’istanza citata è la prima: a parte una serie di carteggi fra Provincia, ENEL, Ministero competente e Autorità di Bacino[5], una lettera del Presidente della Provincia di Belluno, Oscar De Bona, ai Sindaci e ai Presidenti delle Comunità Montane richiama tutti alla necessità di azioni comuni per sostenere davanti al Governo, le ragioni di questa vertenza
Ma è il 1998 che può essere considerato, per Belluno e per la sua provincia, l’anno dell’acqua, anzi l’anno del Piave. E’ stato un periodo denso di avvenimenti e particolarmente significativo nella lunga vertenza che oppone le comunità locali bellunesi a coloro che in termine tecnico vengono definiti “concessionari” per l’uso dell’acqua del bacino idraulico del fiume Piave.
Tuttavia, il 1998 non è stato solo l’anno in cui più manifesta e diffusa si è fatta la consapevolezza di questa situazione di degrado e di rischio, ma due circostanze di segno diverso e complementare, hanno fatto assumere valenza nazionale ed internazionale al “caso” del fiume Piave .
Innanzitutto, le questioni della progressiva morte biologica del fiume e della sua pericolosità sono state definite ed illustrate in tutti i loro possibili, drammatici sviluppi dall’attività sistematica della Provincia di Belluno che, in collaborazione con i comuni rivieraschi e con il sostegno tecnico di numerosi esperti, ha posto al Governo una questione decisiva, cioè la necessità che la gestione dell’acqua – attraverso la revoca e la ridiscussione dei disciplinari d’uso – s’ispiri al principio del bene collettivo e che le comunità locali partecipino alla definizione dei nuovi criteri, di qualità e di quantità, ponendo come obiettivo primario e strategico la ricomposizione dell’equilibrio naturale seriamente compromesso.
Per la prima volta, il Governo ha riconosciuto il valore etico e politico di questa richiesta impegnandosi a dar vita ad un tavolo comune di trattativa fra tutti i soggetti interessati e confermando, in via di principio, di condividere, sopra ogni altro, l’obiettivo di ridare acqua al fiume in modo da ricostituirne la vita biologica e, per quanto possibile, gli andamenti naturali
Attraverso una propria struttura tecnica (l’Autorità di Bacino), il Governo si è mosso in questa direzione con la presentazione di un piano stralcio per il Piave che per la verità è stato giudicato “in tutte le sue inaccettabili inadeguatezze, dalla Provincia di Belluno e dai Comuni interessati”[6].
Nondimeno, è bene considerare questa una tappa importante di un cammino che è ancora lungo perché questo fiume, causa il sistematico processo di artificializzazione realizzato lungo il suo corso, dagli anni venti ad oggi, rappresenta purtroppo un caso limite dello sviluppo industriale di questo secolo, difficilmente riconducibile ad un destino di naturalità.
Lo sviluppo dei limiti
L’altro aspetto che in questo 1998 ha assunto preminenza ed è andato focalizzandosi grazie all’intervento più attento degli organi di informazione (giornali, televisione, radio etc) è stato quello del profondo significato etico e culturale che questa vertenza ha assunto nell’ambito di una riconsiderazione delle politiche d’uso delle risorse, finora praticate dai grandi sistemi produttivi.
Il culmine di questa attenzione si è avuto, nel giugno scorso, con l’incontro a Belluno di una serie di esperti nazionali ed internazionali che si sono confrontati in quattro giorni organizzati dal Centro Internazionale Civiltà dell’Acqua, intorno alle problematiche della modernità in montagna, con particolare riferimento all’acqua quale elemento costitutivo la nostra morfologia materiale e culturale.
Il caso del Piave è diventato perciò la cartina tornasole di molte delle affermazioni di principio che negli ultimi anni sono state come antidoto alla vecchia politica centralistica e come condizione essenziale e non rinunciabile per qualsiasi forma di politica futura e moderna: ci si riferisce, ovviamente, del federalismo o meglio, della sua traduzione concreta sul piano del governo locale per l’uso delle risorse, dei beni e delle identità che sono patrimonio di una o più comunità.
Cos’è che ha ridotto così il Piave se non l’idea – seguita coerentemente dalla politica di allora – che il bene acqua era lì a disposizione di tutti certo, ma poteva essere “adeguatamente” sfruttato solo da alcuni per obiettivi solo in parte d’interesse collettivo, in realtà per il profitto di gruppi e di società ben identificati, per lunghi anni quasi uno Stato nello Stato?
Storia e cronaca, nel bellunese, confermano drammaticamente che lo sfruttamento delle acque non si fermò di fronte a nulla, che nessun scrupolo (né di tipo culturale, né sociale, umano e ambientale) intervenne a mitigare il disegno di chi s’era costruito in pianura il monopolio industriale (Porto Marghera) ed in montagna la propria fonte d’energia (la SADE poi ENEL).
Il Piave è là con le sue acque ingabbiate a testimoniare non solo il limite oltre il quale vi è un punto di non ritorno fra convenienze dello sviluppo, integrità del territorio e diritti delle esistenze – tutte le esistenze biologiche – ma anche antologia esemplare di come è stato inteso questo sviluppo in luoghi dove la ricchezza straordinaria di beni naturali (le acque delle nostre montagne) si accompagnava ad una scarsa resistenza sociale e politica (dovuta alla forte immigrazione e all’isolamento culturale delle comunità montane) dei residenti. Una forma di sfruttamento radicale che ha più i caratteri del colonialismo classico che non quelli delle sviluppo intensivo.
Oggi, questa è una pagina chiusa! L’ha drammaticamente sancito la tragedia del Vajont da cui è partito un lento ed ineluttabile processo di crescita della coscienza di sé per la gente di montagna, ma siamo all’inizio e bisogna guardare alla complessità dei problemi che abbiamo di fronte con la volontà di capire e l’intelligenza per risolvere.
Renzo Franzin(*)
(*) membro dell’Associazione Culturale Tina Merlin di Belluno
[1] Nicola Piccirilli, L’acqua e l’energia elettrica nel bellunese, Belluno, 1999
[2] Il sistema irriguo dei Consorzi citati interessa circa 58.000 ha di alta pianura ed altri 30.000 di bassa pianura
[3] Antonio Zannin, direttore del Consorzio di Bonifica “Pedemontano Brentella di Pederobba” in Conflitti a causa dell’acqua. L’acqua contesa: il caso del fiume Piave, (pag.6)
[4] Ulf Todter, I corsi d’acqua: la natura imbrigliata in ‘1° rapporto sullo stato delle Alpi’, Torino 1998 (pag. 182)
[5] 23 febbraio 1993, lettera ai dirigenti ENEL sui nuovi progetti di sfruttamento del patrimonio idrico della Provincia di Belluno; 29 giugno 1993, richiesta d’intervento al Ministro, all’Autorità di Bacino ed alla regione Veneto sulle portate minime dei corsi d’acqua bellunesi; 4 agosto 1993, lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Presidenti di Senato e Camera sull’istanza di revisione dei disciplinari di captazione delle acque pubbliche a scopo idroelettrico ed irriguo; 20 settembre 1994, richiesta all’Autorità di Bacino di tutti i dati tecnici e delle copie dei disciplinari attivi.
[6] Sergio Reolon, 1998, anno del Piave in ‘I protagonisti’, anno XVI n. 71, Belluno 1998 (pag. 8 )