Mattmark

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1 settembre 1965

Annunzi di morte entrano nelle case degli emigranti bellunsi

Non è possibile descrivere l’ansia con cui le famiglie di centinaia di emigranti bellunesi occupati nell’impianto idroelettrico della valle di Saas ricercano da ieri sera notizie dei propi cari. Per sette famiglie l’ansia si è tramutata in disperazione. Dal ministero dell’Interno è giunta infatti in prefettura la ferale notizia che Giancarlo Acquis, 23 anni, da Belluno; Aldo Casal, 46 anni, da Oregne di Sospirolo; Celestino Da Rechh, 26 anni,; Mario Fiadale, 25 anni; Giovanni Zasio, 27 anni, tutti di Sedico; Virginio Dal Borgo, 45 ani, da Pieve d’Alpago; Arrigo De Michiel, 49 anni, da Lorenzago, non ci sono più: Si teme purtroppo che questo sia il primo elenco di morti.

Nel cantiere operaio della valle di Saas si trovavano, infatti, diverse centinaia di lavoratori bellunesi di tutti i paesi della provincia: dal capoluogo ai comuni più lontani, come Vas, nel basso Feltrino, o Lorenzago e Auronzo, ai limiti settentrionali della provincia. Impossibile elencare tutti i paesi da cui sono partiti; appartengono a tutte le vallate bellunesi della provincia; che conta circa 40 mila emigranti, sparsi in tutto il mondo; di questa provincia diseredata, che fornisce la sua forza-lavoro alla costruzione di una civiltà da cui viene sistematicamente tagliata fuori rimanendo sempre più povera, venendo sempre più delusa dalle mille promesse non mantenute.

E’ sintomatico di questa provincia il fatto che ogni paese straniero, particolarmente in Svizzera, in Belgio, in Francia, in Germania, là dove ci sono miniere o lavori, in galleria, là ci sono lavoratori bellunesi. La miniera i lavori di grande costruzione edilizia hanno rappresentato il pane dei nostri primi emigranti, e questa strada ancora continuano percorrerla oggi, spesso stagionalmente, poiché la gran massa di lavoratori bellunesi manca ancora di altre specializzazioni. Perciò ogni volta che una sciagura sul lavoro si abbatte all’estero, sempre troviamo i lavoratori bellunesi ormai divenuti specialisti dei lavori pericolosi. E ogni volta centinaia di famiglie temono in patria per la vita dei mariti, dei padri, dei figli, delle madri, delle figlie, delle sorelle, che in numero molto maggiore di un tempo seguono gli uomini delle famiglia poiché non vogliono restare sole ad aspettare tanti mesi, poiché desiderano realizzare anche loro un po’ di danaro per il proprio avvenire.

La provincia di Belluno è oggi nuovamente in lutto come lo fu per Marcinelle, per tutti i centri stranieri dove decine di sciagure grosse e piccole hanno devastato le famiglie bellunesi; come lo fu per Longarone appena due anni fa.

Da stamane i parenti fanno la coda negli uffici postali per tentare di avere notizia dai propri congiunti.

Sono partiti per la Svizzera sindaci e amministratori, di molti comuni, specialmente di quei paesi che contano decine di emigranti nel cantiere svizzero, come Sospirolo, che ne conta una trentina. Domegge, che ne ha venti, Sedico, che ne ha numerosi e che registra purtroppo tre vittime. Per il luogo della disgrazia sono partiti oggi anche il segretario della federazione comunista, Marino Olivotto, e l’on. Mario Lizzero, eletto in questa circoscrizione.

Il tempo non passa mai e molti familiari hanno preferito mettersi in viaggio per “vedere e sapere di persona” piuttosto che aspettare notizie incerte. Tanto incerte che oggi si era ufficialmente morto un lavoratore che stamane ha parlato direttamente con una persona del proprio paese.

A tarda sera apprendiamo da diversi comuni che molti emigranti hanno telefonato per rassicurare le famiglie, ma ancora di troppi mancano notizie.

Tina Merlin

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Belluno, 1 settembre 1965

A Domegge la notizia della sciagura ha sconvolto tutto il paese

Sono accorsi sulla diga con il sindaco in testa

Le mogli degli emigrati sono partite di notte, a bordo di taxi – Da tempo le valanghe erano all’ordine del giorno. A Mattmark ai parenti degli scomparsi rifiutano il caffè perché privi di moneta svizzera

Dal Corrispondente

Le vittime della valanga sono purtroppo aumentate. Diciassette lavoratori bellunesi sono rimasti sotto i lastroni del ghiacciaio, precipitato sopra il cantiere idroelettrico nella Val di Saas. E si spera che l’elenco non si estende oltre. Mancano ancora notizie di diversi lavoratori di alcuni Comuni, ma poiché essi non sono inclusi negli elenchi ufficiali dei dispersi che il ministero degli Interni ha comunicato alla prefettura, si spera il meglio: possono essere stati spostati alcuni giorni prima in altri cantieri della ditta Swiss Boring, consorella della Rodio Milanese, incaricata di ingaggiare in Italia operai per la Svizzera.

La zona maggiormente colpita questa volta è il Cadore, in particolare il Comune di Domegge: cinque le vittime di questo centro cadorino che contava nel cantiere svizzero una ventina di operai. La notizia della sciagura di Mattmark era piombata inaspettata lunedì sera con il Giornale radio nelle case di Domegge. Subito dopo la gente si riversava in subbuglio sulla piazza del municipio. La decisione del sindaco, Oscar Da Rin, di partire subito alla testa di una delegazione alla volta della Svizzera, non era sufficiente per tranquillizzare gli animi. Altre persone, infatti, decidevano, seduta stante, di mettersi in viaggio. Tra queste le mogli degli operai Iginio Fedon e Silvio Da Rin, rispettivamente al nono e al settimo mese di gravidanza, che al colmo dell’apprensione senza ascoltare consigli, noleggiavano un taxi, di nascosto dai parenti, partendo la notte stessa.

Nel sentire la notizia della tragedia alcuni operai del cantiere, a casa per le ferie, esclamarono: «Sono rimasti sotto tutti», contribuendo ad allarmare ulteriormente la gente. Per fortuna non è stato così. Di una ventina, alcuni si trovavano a casa per le ferie, quattro erano in viaggio per rientrare al lavoro sulla diga sovrastante o a casa nel piccolo paese a otto chilometri dal cantiere, dove avevano preso alloggio con le mogli che, da qualche anno, li seguivano all’estero.

Un superstite, Esechia Da Col, arrivato stamattina, ci ha raccontato che al momento della tragedia stava lavorando sulla diga. Aveva visto cadere la valanga, ma pensava che si fosse fermata prima di arrivare ai baraccamenti. Altre valanghe di minore entità continuavano a cadere da qualche tempo, per questo non si spaventò. Terminò con calma il suo lavoro. Si trovava in un luogo da dove vedeva soltanto la cima del ghiacciaio. Quando uscì dalla diga per dare una occhiata in basso gli si gelò il sangue nelle vene.

A Domegge oggi non si parla d’altro. La solidarietà che la popolazione manifesta ovunque per le famiglie colpite ha il significato di una disgrazia comune, poiché ognuna delle famiglie che ha congiunti all’estero, e non solo nella Val di Saas, si sente legata alle altre dal medesimo destino che finché esisterà l’emigrazione è un destino comune: oggi è toccato a te, domani può accadere a me.

Anche la storia delle vittime è la stessa di ogni emigrante della provincia. Prendiamo alcuni esempi. Chi era Rubelio Pinazza, il capo cantiere? Aveva fatto otto anni di guerra su tutti i fronti. Dopo la Liberazione incominciò a emigrare. Uomo intelligente, capace, di una onestà e responsabilità da tutti conosciute, divenne in breve tempo un capo operaio e come tale agevolò l’ingaggio di molti suoi compaesani. Per questo, molti di Domegge si trovavano nello stesso cantiere. Dicono che egli poteva salvarsi. Avvisato da un operaio spagnolo che stava discutendo con lui davanti alla baracca, non volle mettersi in salvo prima di aver avvisato anche gli altri. Corse all’interno per dare l’allarme e rimase travolto dalla morte bianca.

Prendiamo un altro: Pinazza Ilio, di appena 20 anni, il cui padre da 40 anni fa l’emigrante in Francia. Il giovane Ilio era appena uscito dagli studi col diploma di disegnatore meccanico In patria non trova lavoro, emigra e muore dopo pochi mesi dal suo primo impiego. Fra quelli di Domegge c’era anche un polesano, Giovanni Baracco, venuto in Cadore con la famiglia al tempo dell’alluvione. Era il primo di sei fratelli. L’estero era l’unica via per tutti quelli che umanamente volevano costruirsi una vita più civile. Soltanto con duri sacrifici è riuscito a conquistarsi il diritto a un vivere civile – la casa, la scuola per i figli, le piccole comodità domestiche – che alle popolazioni di montagna è sempre stato negato a chi lavora in patria anche per calcolo ben preciso: perché gli emigranti «rendono» alla nazione.

Recentemente è stato detto che l’emigrazione è l’industria più fiorente in Italia. Non conta il «costo» umano pagato per questo. In vite, in umiliazioni, in sacrifici individuali e collettivi. Oggi un operaio di Sottocastello, uno di coloro che si trovavano fortunatamente in ferie, ci ha detto dei discorsi ricorrenti nelle camerate dei cantieri quando gli operai la sera si raccolgono per il riposo: «Se riuscissimo a guadagnare anche solo la metà di qui, resteremmo tutti in Italia».

Aveva gli occhi ludici, Aldo Cicciariello, 25 anni, mentre scorreva sui giornali gli elenchi dei compagni morti: «Li conosco tutti… tutta gente che conosco… tutti… tutti». Aveva il pianto nella voce. È partito per la Svizzera che aveva appena 17 anni, in qualità di manovale. Ora è capo specialista sondeggiatore. Ma l’amarezza con cui parla della propria condizione di emigrante è quella che abbiamo sentito da altri emigranti; è la stessa di quelli tornati dalla Svizzera col sindaco di Domegge: gli italiani in Svizzera sono tollerati. Nessuna solidarietà è stata dimostrata per la disgrazia che ha colpito tanti italiani. Ai familiari delle vittime, nel bar del piccolo villaggio, ai piedi della diga di Mattmark, è stato persino rifiutato un caffè perché non si aveva moneta svizzera con cui pagarlo.

Tina Merlin

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2 settembre 1965 – Varie

A Mattmark le madri, le mogli, i fratelli delle vittime italiane

“Salvarsi dal Vajont per morire in Svizzera…”

Dal Vajont a Mattmark

Mattmark e Vajont: molti, chiari elementi accomunano la recente catastrofe di Saas Almagell alla tragedia di Longarone del 9 ottobre di due anni or sono. Come nel Vajont, anche a Saas Almagell lo spaventoso schianto è avvenuto all’ombra di una grande diga idroelettrica in costruzione. E come nel Vajont fu un intero paese ad essere travolto e inghiottito dall’acqua, a Mattmark è un intero villaggio operaio ad essere annientato dal ghiaccio.

Ma altre ancora sono le analogie: come due anni or sono per Longarone, anche per la tragedia di Mattmark si è subito parlato di «cause imprevedibili», di «fatalità», di «impossibilità di evitare la catastrofe». Ma – come due anni fa – la verità è venuta a galla altrettanto rapidamente: la strage poteva essere evitata non solo perché fin dall’inizio della costruzione della diga il villaggio operaio poteva essere costruito in luogo sicuro, ma perché segni chiari del pericolo potevano essere avvertiti molti giorni prima del disastro.

Le autorità elvetiche hanno anch’esse disposto un’inchiesta. Una analoga inchiesta fu decisa per il Vajont. Ma il suo esito è noto: la DC ha fatto di tutto per evitare che fossero chiaramente indicate le responsabilità del monopolio SADE, dell’ENEL-SADE e dello Stato. Si è insistito nel fare appello alla fatalità ed alle forze della natura quando dalle indagini stesse era risultato che l’autorizzazione a costruire l’impianto poteva e doveva essere bloccata, quando il pericolo era stato denunciato da assemblee locali, parlamentari e tecnici. La verità sulle responsabilità della tragedia del Vajont è espressa, invece, chiaramente nella relazione di minoranza presentata dai comunisti a conclusione della inchiesta stessa.

Come andranno le cose per la tragedia di Mattmark? Premerà il governo italiano perché la verità venga alla luce e le responsabilità siano chiaramente indicate? Oppure prevarrà – anche in questo caso – la solidarietà a parole con le vittime ed i parenti delle vittime, e la solidarietà nei fatti con i responsabili del disastro, cioè con le varie SADE elvetiche? Il problema non è di astratta giustizia. Se il governo italiano agirà perché la verità sia stabilita; se le responsabilità precise verranno coraggiosamente indicate (e che responsabilità schiaccianti vi siano basterebbe a dirlo la fotografia pubblicata da tutti i giornali nella quale si vede in quale posizione è stato costruito il villaggio per gli operai!) ciò significherà non solo ottenere di più per le famiglie delle vittime dello schianto di Mattmark; ma soprattutto poter imporre alle autorità elvetiche serie garanzie di sicurezza sul lavoro per tutti i nostri emigrati.

Queste garanzie avrebbero potuto essere ottenute da tempo (vi sono precisi progetti di legge e proposte presentate al riguardo in Parlamento dai comunisti e da altri gruppi) se i governi di centro-sinistra non avessero avuto nei confronti degli emigranti lo stesso atteggiamento di tutti i governi centristi. La catastrofe di Saas Almagell ripropone in termini tragici l’intero problema. Sta al governo dimostrare, coi fatti, la propria scelta. Altrimenti, alla complicità con la SADE, dimostrata di fronte al dramma del Vajont, esso aggiungerà la complicità con i monopoli elettrici elvetici per lo schianto di Mattmark.

Tina Merlin

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20 febbraio 1966 – Tre Venezie

A Sedico l’estremo saluto ad Angelo Casanova

HA PAGATO CON LA VITA

IL SUO DIRITTO AL LAVORO

Una grande folla alle esequie del minatore morto in Svizzera – La via della emigrazione costellata di lutti per il profitto delle grandi società industriali

Dal Corrispondente

BELLUNO, 19 febbraio

Nel cimitero di Sedico è stato sepolto oggi il minatore Angelo Casanova, accompagnato all’ultima dimora da una grande folla in lutto. Appena cinque mesi fa la stessa folla aveva accompagnato al medesimo cimitero altri tre compaesani, morti a Mattmark.

Un dolore che si rinnova.

È un dolore che si rinnova per tragedie purtroppo ricorrenti non solo a Sedico, ma in tutti i paesi della provincia: non ce n’è uno che non abbia emigranti all’estero, soprattutto nei luoghi dove si costruiscono dighe e bacini idroelettrici. I nostri lavoratori sono ormai specializzati in questi impieghi: in parte per la tradizione ereditata dai padri minatori, in parte per l’esperienza acquisita nei loro paesi d’origine a lavorare nelle gallerie per la costruzione dei numerosi bacini idroelettrici, realizzati nel Bellunese. Realizzazioni grandiose, ma pericolosissime e lo sanno bene le società costruttrici tanto da preventivare il rischio delle vite umane sul conto della spesa complessiva dell’opera.

Quanti dei nostri concittadini hanno finito la loro vita dentro una galleria, sotto una frana, o cadendo da una impalcatura? In appena venti anni certamente diverse centinaia. È del giorno dopo la sciagura del Canton Ticino la notizia pervenuta dal Ghana che annunciava la morte, avvenuta in seguito a una esplosione in galleria, di Angelo Zangrando, da Perarolo. Anche lui lavorava in un cantiere idroelettrico.

Tre emigranti morti sul lavoro in due giorni. Spesso la notizia di un decesso passa quasi inosservata, a meno che non coinvolga un gruppo numeroso di vittime. Si sente dire che un operaio del tal paese è morto all’estero e la ribellione avviene solo nell’ambito della famiglia interessata; spesso l’opinione pubblica non lo viene nemmeno a sapere e anche quando ne ha notizia l’accetta come una «fatalità» derivata dalla condizione stessa dell’emigrazione; dalla fortuna o dalla sfortuna personale di trovarsi nel momento della disgrazia in un posto della galleria invece che in un altro.

Poche volte si va al di là di questo semplice ragionamento anche perché la condizione dell’emigrante poggia sulla leggenda-simbolo del bravo e operoso lavoratore che rende alla patria ed è il benemerito di una vasta schiera che all’estero contribuisce al progresso della civiltà.

Commozione tardiva

Agli emigranti che tornano si preparano d’inverno festose accoglienze, con messe, banchetti e discorsi, dove i deputati democristiani hanno modo di commuoversi per i sacrifici degli emigranti, sperando nei voti futuri. Ultimamente è nata perfino un’Associazione degli emigranti, che ha per fondatori tutte le organizzazioni cattoliche e paragovernative della città, unite allo scopo di «sollevare» le condizioni di questi lavoratori attraverso comitati all’estero e in Italia, affinché l’emigrante «viva nel proprio ambiente» e non senta con troppa nostalgia la lontananza del paese e della patria.

Tra tutte le clausole inserite nello statuto di questa associazione non ce n’è una che abbia l’unico significato importante e umano per gli emigranti e cioè quello di farsi promotrici di una battaglia concreta affinché i lavoratori trovino, in quella patria sempre indicata con la iniziale maiuscola, il necessario per vivere accanto alla famiglia.

Oggi dietro la bara di Angelo Casanova (la salma dell’altro bellunese perito nella sciagura del Canton Ticino, Valerio Chenet, è stata sepolta in Svizzera) pensavamo a queste cose e al veramente triste destino di questo operaio. Cacciato dalla valle del Mis dalla società elettrica che gli aveva espropriato la terra e la casa per poter costruire un lago artificiale, Angelo Casanova ha finiti col morire all’estero, nel cantiere di un’altra società elettrica, quasi che il suo destino di uomo fosse quello di servire, fino alla morte, le grandi società che nel mondo capitalista agiscono da padrone di tutto e di tutti.

Ancora una volta le autorità «ufficiali» diranno di lui, come hanno detto di tanti, che il suo sacrificio è stato utile al progresso. Come quello di Valerio Chenet che ha speso tutta la sua vita a fare l’emigrante. La realtà dell’emigrante verrà ancora una volta camuffata dal pietismo. E gli emigranti continueranno a morire soffocati nelle gallerie mentre le autorità italiane piangeranno la loro sorte senza peraltro adoperarsi sul serio, fino in fondo, per cambiarla.

Tina Merlin

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